giovedì, giugno 23, 2005

Liberismo sociale


Sono indubbiamente interessanti le considerazioni, svolte dall'economista Carlo Pelanda, sulla necessità di creare un nuovo modello politico, che tenga conto della crisi di fiducia della popolazione e della inadeguatezza e lo sperpero rovinoso di risorse del welfare, imponendo un ripensamento delle strategie economiche nell'ambito di un'efficiente riforma liberale.

Molto opportunamente egli richiama l'attenzione, non tanto sulla distinzione fra destra e sinistra, quanto sulla necessità di delineare iniziative volte a creare sicurezza nei cittadini sulle possibilità di creazione della ricchezza e della sua diffusione in ceti sempre più ampi, aprendo sempre maggiori opportunità di accedervi per ogni individuo, al di fuori dei modelli classici dello Stato assistenziale e del liberismo puro.

Fronteggiare la globalizzazione con un movimento unitario, all'interno del centrodestra, sembra a Pelanda più realizzabile, che nell'area del centrosinistra, non essendo così distanti le istanze della cosiddetta destra sociale con quelle dei liberisti classici in campo moderato.

La forma del "liberismo sociale" può rivelarsi un cardine del programma di rinnovamento, da proporre per le prossime elezioni, capace di assecondare le aspettative della pubblica opinione.
Ma riteniamo che occorra lavorare con notevole impegno culturale e rigore scientifico, avendo la forza di abbandonare ogni sorta di pregiudizi ideologici.

Appare chiaro che lo statalismo non equivale a socialità, né che la libera iniziativa possa significare una concentrazione di poteri nelle mani di pochi gruppi finanziari, o di alcune grandi famiglie - com'è avvenuto in passato, né che l'innovazione e la creatività, per assorbire la concorrenza di altre nazioni, siano elargibili con decreti governativi.

Saranno in grado le varie componenti della "Casa della libertà" di affrontare questa sfida, elaborando princìpi economici credibili ed efficaci per la nuova modernizzazione del paese?

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Come ha scritto Martino, il c.d. "liberismo sociale" non esiste. Per due motivi.
1) Non esiste il concetto di liberismo, che infatti è tutto e solo italiano (ideato da Croce, che non aveva studiato economia, per contrapporsi al "liberalismo" di Einaudi, il quale diceva che non è possibile distinguere le libertà economiche da quelle politiche, pena la perdita di entrambe);
2) il termine "sociale" sta per "socialista". Il che significa "statalista" (a più gradazioni ovviamente). Quindi, non è "liberale".

Che qualcuno informi Pelanda.

Piero Sampiero ha detto...

Credo che Martino sia degno di rispetto e che Croce si riferisse al cosiddetto "ircocervo" liberalsocialista, ma non in senso prettamente economico.
E' un fatto però che Blair, in Inghilterra, è riuscito laddove i liberisti duri e puri non immaginavano probabilmente si sarebbe arrivati, utilizzando proprio una politica liberista aperta a ceti sempre più vasti e popolari.
Io non credo nei totem e nelle apodittiche definizioni.
Ritengo che la scienza economica sia solo un'arte e le categorie economiche siano soggette a cambiamenti col tempo.
Sta a noi adattarle ad un mondo che cambia.
Non c'è nessun vangelo economico.
Mi pare che Pelanda dica cose abbastanza equilibrate e non sbagli nelle sue diagnosi. Oltrettutto, non è l'ultimo arrivato in studi e ricerca.
Il suo "liberismo sociale"(senza dover inorridire per il termine) è nient'altro che "l'economia sociale di mercato", già sperimentata in passato e da adeguare ai nuovi problemi che la società moderna pone ai paesi avanzati.
Essa non è un' economia socialista, ma liberale e riformatrice.

Anonimo ha detto...

Appunto: "economia sociale di mercato". Questa non è economia liberale.
E' qualcosa di ben diverso: è una forma di socialismo molto attenuata. Ma sempre socialismo è. E' un modo per lasciare un ruolo ancora attivo allo Stato nelle faccende economiche. E, ripeto, ciò non è "liberale". Nè ieri, nè sicuramente oggi (e probabilmente sempre di più domani).
Io stimo Pelanda. Ma non condivido affatto questa impostazione. Perché per la c.d. "economia sociale di mercato", storicamente, hanno spinto i socialisti di vario titolo in Italia col recondito modello renano. Che si vede che fine sta facendo.
Quanto a Blair, al di là delle etichette, si può dire certamente che ha fatto cose liberali. Ma non tutte. Alcune prese di posizione hanno accontentato la sinistra del Labour, ma hanno scontentato tanti liberali.
Detto questo, è evidente che dal mio punto di vista, preferisco cento volte un Blair (che, ripeto, non ha certo dato vita ad economia sociale di mercato nel grosso delle sue decisioni economiche) ad uno qualsiasi che crede ancora nell'illusione dell'economia sociale di mercato.
Ma non stiamo certo parlando di liberalismo. Questo deve essere chiaro.

Piero Sampiero ha detto...

Io rispetto ovviamente la tua opinione fin dal titolo della tua pagina, inequivocabilmente legata ad Antonio Martino (anche se, come insegna Croce, liberale e liberista non s'identificano).

Mi permetto solo di ribadire che l'economia sociale di mercato è ben altra cosa dello statalismo e del socialismo.

Non è nata in ambienti socialisti, ma semmai cattolico-liberali.

Il concetto di mercato è estraneo sia al socialismo che allo statalismo.

Si può tendere a conservare il concetto liberista ibernato nel tempo, anche se di economisti liberisti c'è un vasto aggregato non uniforme, in varie parti del mondo.

La Cina è lì a testimoniare quante facce possa avere il liberismo. Definiremmo ancora la Cina statalista, socialista o comunista in economia?

L'azionariato popolare, aspetto non secondario dell'economia sociale di mercato, è statalismo, socialismo?

L'esigenza non è tanto quella di conservare una dottrina astratta, quanto di fare i conti con la realtà attuale e prossima ventura, senza dimenticare un unico principio per il quale vale la pena di mobilitare le coscienze, quello della difesa della libertà in tutti i campi, senza utopismi (non credo che il liberismo puro, disegnato dai teorici abbia mai avuto una concreta e compiuta trealizzazione)né cristallizzazioni (compito della ricerca o della cosiddetta scienza, compresa quella economica,
è di andare avanti e risolvere i problemi di una società complessa).
Se, a questo fine, può dare un contributo serio il "liberismo sociale", che sia il benvenuto.

Anonimo ha detto...

Semplicemente liberale mi piace. Che significa "sociale" se non intervento dello Stato e quindi spesa improduttiva e "spiazzamento"? E' una parola per prendere per il culo le masse, ma in fondo non significa nulla. Vero, la parola liberismo è italiana: da noi libertà economica è ancora una cosa brutta, quasi un peccato. Se hai i soldi avrai fatto qualcosa di sconveniente, ci deve essere lo Stato che aggiusta tutto. Lo stesso stato che in nome del "sociale" de-responsabilizza gli individui. E' putroppo un residuo del fascismo, che in campo economico era socialista, ereditato da tutto il panorama politico nel dopoguerra e difficile da abbattere. Purtroppo. GM

Piero Sampiero ha detto...

Caro Mariniello. Semplicemente liberale piace anche a me.
Ma semplificare troppo non va bene in un mondo complesso e in una realtà economica variegata.
Rischiamo di divenire semplicisti a parlare per definizioni astratte, non sempre esatte ed adeguate alla modernità e alla società contemporanea. Sociale, liberista, liberale, economia etc.
Contenitori vuoti se non si parte da una visione concreta dell'uomo e della politica (non riconducibile alla sola categoria economica).
"Meno stato e più mercato è una valida idea. Ma non basta il mercato, ci vuole lo stato, il quale detta le regole e le fa rispettare.
Altrimenti addio alla libertà.