domenica, maggio 25, 2014

Mircea Eliade e l'ideale dell'uomo universale di I. P. Couliano (*)

      

L'itinerario
Nato il 9 marzo 1907 nella famiglia di un ufficiale di carriera, Mircea Eliade
manifestò un'attitudine molto precoce per gli studi
enciclopedici. Dopo aver debuttato con alcuni articoli di entomologia in
una rivista di divulgazione scientifica, in breve tempo festeggiò la
pubblicazione del suo centesimo articolo. La sua adolescenza è segnata
da due inclinazioni complementari: crisi di disperazione malinconica e
rivolte eroiche contro di esse e contro le limitazioni della condizione
umana in generale. Si abituò a non dormire che cinque ore per notte e
anche ad ingoiare sostanze repellenti per dominare la sua volontà. Oltre
a questo, dopo Honoré de Balzac, la sua prima passione letteraria,
incontra Giovanni Papini e si riconosce nel suo "uomo finito" che giunge
fino a perdere la propria identità. Già in quest'epoca
si appassiona per
la storia delle scienze -specialmente l'alchimia-, per l'orientalismo e
la storia delle religioni.

Iniziati gli studi universitari di filosofia nel 1925, restò affascinato
dal suo professore Nae Ionescu (1890-1940), un giovane erudito di
aspetto e intelligenza mefistofelici che doveva divenire di lì a poco
una delle voci di spicco del movimento tradizionalista rumeno. In quel
periodo, Nae Ionescu spartiva il suo tempo fra le lezioni di metafisica
e di logica e il giornale "Cuvântul" (La Parola), di tendenza politica
nazional-contadina. In un panorama politico dominato dal partito
liberale, i nazional-contadini si ponevano alla destra del governo e
basavano i loro progetti di riforme economiche e sociali sull'idea del
benessere della classe maggioritaria, che era quella dei contadini.
Senza interessarsi direttamente di politica, Mircea Eliade, che divenne
presto redattore di "Cuvântul", era un democratico nato. Una visita in
Italia, nel corso della quale ebbe un incontro col suo idolo Giovanni
Papini ma anche con gli intellettuali Ernesto Buonaiuti e Virgilio
Macchioro, gli offrì l'occasione di condannare in un articolo il regime
di Mussolini. Virgilio Macchioro, al quale dobbiamo queste informazioni,
fu quasi messo alla porta, dal che l'ingenuo giovane Mircea Eliade
decise di non occuparsi mai più direttamente di politica.

Fu in Italia che seppe dell'esistenza di Surendranath Dasgupta, il
grande storico della cultura indiana, e della liberalità del maharaja di
Kassimbazar. Scrisse a quest'ultimo per chiedere una borsa di studio in
India, al fine di studiare le pratiche dello yoga. La richiesta fu
accolta e nel 1929, a 22 anni, Mircea Eliade si ritrovò a Calcutta dove
all'inizio visse in una pensione per inglesi, per trasferirsi in seguito
dal suo guru Dasgupta. Tuttavia un amore sfortunato lo allontanò dalla
casa di costui ed egli si ritirò nell'eremo himalaiano di Shri
Shivananda. Un nuovo amore, come pure la necessità di compiere il
servizio militare in Romania, lo costrinsero ad abbandonare l'eremo e a
rientrare a Bucarest, dove apparve il suo primo romanzo: Isabel si apele
diavolului (Isabella e le acque del diavolo, 1930).
Per Eliade è la celebrità, accompagnata da una lunga serie di delusioni.
Superato il dottorato in filosofia con la prima versione del suo libro,
pubblicato contemporaneamente da P. Geuthner e dalla Fondazione Reale
romena nel 1936, che costituisce l'unica grande opera allora disponibile
di sintesi sullo yoga, egli vede aprirsi ad un tempo la carriera di
romanziere e quella di insegnante universitario, diventando assistente
supplente di Nae Ionescu nella facoltà di Lettere. Nel 1933 arriva il
successo -di prestigio e di pubblico- del romanzo autobiografico
Maytreyi, tradotto nel 1950 in francese col titolo La Nuit bengali. Da
allora i volumi di saggi, di memorie, di romanzi e di scritti
scientifici si susseguono: ventidue, dal 1932 al 1943. Molti dei quali
costituiti da raccolte di articoli, che, al 1943, erano ormai più di un
migliaio ...ed Eliade era appena giunto alla maturità!

Sostenuto sia dal partito nazional-contadino arrivato al potere sia dal
re che lo aveva fatto tornare in Romania, il professor Nae Ionescu si
avvicinò lentamente all'organizzazione estremista "La Guardia di ferro",
di Cornelio Zelea-Codreanu (1899-1938). Per questo motivo il giornale
"Cuvântul" dovette sospendere le pubblicazioni nel 1933. Ideologo di una
rivoluzione ortodossa che doveva restaurare i valori dello spiritualismo
autoctono, Nae Ionescu, buon conoscitore della cultura ebraica, finì con
assumere a poco a poco posizioni vagamente antisemitiche. Questo gli fu
rimproverato dall'allievo Mircea Eliade nel corso di una celebre
polemica nel 1934. In effetti Eliade si collocava ancora su posizioni
democratiche, rifiutando di cadere negli eccessi dei suoi amici di
destra o della sinistra comunista. Egli manteneva aperto il dialogo con
gli uni e con gli altri attraverso la partecipazione ad un ciclo di
conferenze chiamato Criterion, il cui scopo era di rappresentare in
maniera equilibrata tutti i punti di vista in un dibattito
autenticamente pluralista. Sfortunatamente, dal 1934, i punti di vista
si irrigidirono e Eliade si vide isolato in una terra di nessuno dai
suoi amici di sinistra come da quelli di estrema destra,
rimproverandogli sistematicamente gli uni il suo "spiritualismo", gli
altri la sua posizione a proposito della "questione ebraica".
Ciò nonostante Eliade finirà con l'essere ingiustamente considerato di
destra a causa della politica sempre più marcata del suo maestro Nae
Ionescu. È così che nel corso delle grandi purghe ordinate dal re Carlo
II, dopo l'arresto di Nae Ionescu, venne anch'egli internato in un campo
di concentramento. Rimesso in libertà, egli rimase d'allora in poi
prigioniero dello stesso equivoco dal quale era dipeso il suo arresto.
Poco dopo, alle Idi di marzo del 1940, Nae Ionescu cadeva, probabilmente
vittima di uno dei servizi segreti stranieri che si erano resi conto
dell'enorme importanza economica e strategica della Romania allo scoppio
della guerra.
Il 10 aprile 1940 Mircea Eliade venne nominato consigliere culturale
dell'Ambasciata rumena a Londra dal governo del liberale filo-inglese G.
Tataresco, il cui ministro degli Affari culturali era lo storico
liberale C. C. Giuresco. Quando, il 10 febbraio 1941, l'Inghilterra
ruppe le relazioni diplomatiche con la Romania, Eliade fu trasferito a
Lisbona, dove rimase per tutta la durata della guerra.

L'esperienza portoghese è fondamentale per la posizione politica assunta
da Eliade in quest'epoca tragica. Democratico convinto, egli si vede
costretto ad accettare la realtà della dittatura, poiché la Romania è
passata dalla dittatura reale del 1938-1940 alla dittatura militare del
1941-1944. In Portogallo Eliade si confronta con una dittatura a quei
tempi prospera e, per ammissione dei suoi stessi avversari, molto
"democratica", di cui, al di fuori della mischia, egli può ammirare ad
un tempo la posizione moderata in politica estera e soprattutto il
rifiuto dell'antisemitismo in tutte le sue forme. Al confronto della
dittatura militare romena, che cade sempre più preda delle minacce e
delle promesse di Hitler, il leader portoghese Salazar si permette di
criticare Hitler in pubblico, affermando che l'occupazione militare
dell'Europa da parte dell'esercito nazista costituisce la più grande
sventura della civiltà occidentale.
Eliade descrisse la sua esperienza portoghese in un libro, apparso in
Romania nel 1942, con lo scopo di persuadere il dittatore del suo paese
ad assumere un atteggiamento più flessibile riguardo alle richieste
tedesche. Lo stesso Salazar, che Eliade incontrò nell'agosto 1942,
considerava una follia la guerra di Russia e dichiarò che se egli fosse
stato Antonesco si sarebbe curato di far rimanere l'esercito in patria.
Mircea Eliade rientrò a Bucarest per tentare di trasmettere questo
importante consiglio al leader romeno, ma giunse solo alla sua
anticamera. È questa la sua ultima visita alla terra di Romania.

La fine della guerra lo sorprende a Parigi, con le difficoltà
iniziatiche dell'esilio, che egli affronta da solo, dato che la sua
prima moglie è morta durante la guerra. Il grande successo delle sue
prime opere scientifiche non è in grado di assicurargli un posto al CNRS
poiché su di lui pende il sospetto -infondato ma alimentato
dall'ambasciata di Romania- di essere stato membro della Guardia di
ferro. Il 9 gennaio 1950, Eliade sposa Christinel Cottesco che sarà
l'inseparabile compagna della sua vita e del suo lavoro per i successivi
trentacinque anni. Legatosi in amicizia con Carl Gustav Jung, partecipa
alle conferenze "Eranos" ad Ascona e ottiene una modesta borsa di studio
dalla fondazione Bollingen di New York, che gli consente il
sostentamento fino al 1955 quando, invitato a Chicago per tenere le
famose Haskell Lectures, andrà ad occupare la cattedra, rimasta vacante,
del grande studioso di sociologia e fenomenologia delle religioni
Joachim Wach. Stabilitosi negli Stati Uniti, Mircea Eliade va incontro
ad una sempre maggiore notorietà, pienamente meritata in forza
dell'originalità, dell'ineguagliabile erudizione e della profondità dei
più di trenta volumi apparsi nel dopoguerra e tradotti in 18 lingue.
Proposto dieci volte senza alcun esito per il premio Nobel per la
letteratura, Mircea Eliade ha in compenso ottenuto le più alte
distinzioni accademiche ed onorifiche in Francia, negli Stati Uniti e in
altri paesi d'Europa e d'America.

L'opera vasta e profonda dello storico delle religioni nasce da
un'implicita contesa sul senso dell'esistenza dell'uomo nel mondo. Lo
scopo di Eliade è di tracciare i contorni di una antropologia filosofica
a partire dalla descrizione delle strutture fondamentali della
religione.
Ci sono tre caratteri fondamentali che attraversano la carriera
scientifica di Eliade:
1) lo specialista, autore delle monografie sullo yoga (1936, 1954), lo
sciamanesimo (1951) e le religioni australiane (1973);
2) il fenomenologo-comparatista, autore del Trattato di storia delle
religioni (1949), di Aspetti del mito (1963) e dell'imponente Storia
delle credenze e delle idee religiose (tre volumi, 1976-1983);
3) infine il filosofo-ermeneuta, autore di notevoli saggi, in romeno e
in francese, alcuni dei quali sono inclusi nei volumi Miti, sogni,
misteri (1957), La nostalgia delle origini (1971), ecc.

Superare i limiti della condizione umana
Lo studio dei documenti religiosi dell'umanità rivela ad Eliade
l'esistenza di un'identità o di una continuità di struttura che si
manifesta nelle molteplici analogie al livello delle tecniche religiose
propriamente dette. È così che, senza pronunciarsi sulle filiazioni
derivate da questi due fenomeni religiosi distinti, Eliade sottolinea,
ad esempio, le grandi somiglianze fra lo yoga e lo sciamanesimo sul
piano dei loro propositi esistenziali e della realizzazione pratica
degli adepti. Per lo sciamano l'importante è l'estasi. Tutto ciò che
egli fa, fino ad esempio ai più piccoli dettagli del suo costume, è
diretto a questo scopo. L'estasi è così quasi il compimento di una
rappresentazione teatrale, al punto che i limiti fra le due sono spesso
impercettibili. Ma l'ideologia sciamana afferma che il praticante può
trascendere i limiti della condizione umana, e la tecnica mette a volte
il ricercatore a confronto con fenomeni paradossali.

Quanto allo yoga, pur fondandosi sulle stesse credenze arcaiche dello
sciamanesimo, esso rappresenta una tecnica in cui il cosmo è piuttosto
interiorizzato dal praticante, assunto nel suo corpo sottile. Per Eliade
l'estasi dello sciamano si contrappone all'"èntasi" dello yogi.
Fedele a questo programma di ricerca delle tecniche religiose di
superamento della condizione umana, Eliade si pose ugualmente ad
analizzare quel fenomeno di rilevanza ad un tempo sociale e mistica che
è l'iniziazione (Nascite mistiche, 1959, poi Iniziazioni, riti, società
segrete, 1976). Dallo stesso programma d'indagine delle tecniche
religiose mediante le quali l'uomo afferma la sua autonomia spirituale
dipendono le ricerche sull'alchimia, abbozzate già in due piccoli volumi
in rumeno (1935 e 1937) ma rese celebri dal testo Arti del metallo e
alchimia (1956). Sciamanesimo, yoga, iniziazioni, alchimia costituiscono
le quattro maggiori materie alle quali Eliade ha consacrato alcune opere
di riferimento obbligato.

Fondata su una vasta esperienza di documenti religiosi autentici,
l'opera del fenomenologo rappresenta una continuazione e al tempo stesso
un superamento dei soggetti monografici verso la realizzazione di grandi
sintesi. La prospettiva fenomenologica è intesa a scoprire le strutture
e i tipi all'interno delle religioni di tutto il mondo, per cogliere
quanto fra di esse vi è di comune, in breve a stabilire l'essenza della
religione.
La fenomenologia delle religioni in quanto disciplina autonoma era
apparsa in Olanda durante la seconda metà del XIX secolo, difesa ed
illustrata dai professori P. D. Chantepie de la Saussaye (ad Amsterdam)
e C. P. Tiele (a Leida). Dopo la pubblicazione dell'opera di Edmund
Husserl, la fenomenologia delle religioni si era ispirata ad
quest'ultima per difendere la sua particolare procedura, la cui
intenzione era quella di cogliere l'essenza del fenomeno in oggetto. Il
suo carattere di disciplina scientifica, che procedeva induttivamente,
venne via via accentuato dai numerosi fenomenologi tedeschi, olandesi e
svedesi all'inizio del secolo. Fra essi il più grande -e il principale
ispiratore di Eliade- fu il professore di Groninga Gerardus Van der
Leeuw (1890-1950), autore di un'imponente Fenomenologia religiosa (1933)
come pure di molte altri fondamentali saggi sulle strutture della
religione e la mentalità primitiva.
Vi era in qualche modo una tradizione, all'interno dei trattati di
fenomenologia, di abbozzare dei quadri di categorie religiose ricorrenti
con cui rappresentarle in modo invariabile, dato che le esperienze
religiose, dalle più semplici dell'umanità hanno attinto al centro
all'interno del quale si svolge la vita umana: il cielo, la terra,
l'acqua, la vegetazione, la roccia. Fra le 82 categorie di Van der
Leeuw, queste ultime non avevano che un ruolo marginale e, ciò che più
conta, se ne parlava ancora al modo degli evoluzionisti, dopo aver
trattato il soggetto dell'animismo. Infine il loro ordine era ugualmente
dettato dall'idea evoluzionista, implicita o esplicita, che le stesse
religioni avessero conosciuto uno sviluppo dal semplice e dall'inferiore
verso il complesso e il superiore. Il problema di Dio nel monoteismo non
poteva dunque essere trattato che alla fine delle liste delle categorie.

Il sacro modifica la nostra percezione dello spazio-tempo
Nel suo Trattato di storia delle religioni, Eliade capovolge, in due
sensi, la tradizione della fenomenologia. In primo luogo perché la
fenomenologia religiosa non va al di là dell'esperienza legata al dato
naturale, al tempo e allo spazio. In secondo luogo perché si parla del
Dio monoteista all'inizio e non alla fine dell'opera.
L'innovazione introdotta da Eliade all'interno della fenomenologia è
quindi di ordine molto elevato. Eliade determina le categorie in virtù
delle quali l'esperienza religiosa modifica la percezione dello spazio e
del tempo (materia su cui i suoi scritti più volte si erano soffermati)
già a partire da Il mito dell'integrazione (ed. originale 1942) e
Commentari sulla leggenda del maestro muratore Manolo (1943).

Nella sua opera di fenomenologia Eliade introduce il concetto
fondamentale di ierofania, che rappresenta la rivelazione del sacro
entro gli oggetti naturali e artificiali che circondano l'uomo.
I primi elementi che si rivelano come sacri sono il cielo, la terra,
l'acqua, gli alberi, le pietre. Ma tutte queste ierofanie esprimono una
particolare modalità del sacro: così il cielo, ad esempio, simboleggia
la trascendenza, la terra simboleggia piuttosto la maternità e la
fecondità, ecc. In una vasta sintesi Mircea Eliade delinea
minuziosamente l'esperienza umana del sacro, un'esperienza che è, per
noi, strana ed affascinante ad un tempo.

Il territorio, per l'uomo arcaico, è sempre orientato: è uno spazio
sacro attorno ad un centro del mondo, il quale è ad un tempo assoluto
dal punto di vista ontologico e relativo dal punto di vista pragmatico
(nel buddhismo ad esempio ciascun stupa o tomba di Buddha è un centro
del mondo e, allo stesso tempo, l'unica tomba dell'unico Buddha).
Il tempo sacro è un tempo reso ciclico dalla commemorazione periodica e
stabile di avvenimenti che hanno avuto luogo all'origine.
Spazio e tempo sacro devono il loro speciale carattere al mito. Il mito
è sempre una storia concernente le origini del mondo nel senso più
generale. Questo racconto riguarda anche il territorio -di cui
stabilisce il carattere sacro per il rapporto che instaura con le gesta
degli esseri mitici primordiali- e il tempo -i cui cicli si basano
ugualmente sulle cerimonie e i rituali periodici istituiti ab origine
dai personaggi del mito.
Per l'uomo arcaico il mondo non è che un pretesto, un supporto la cui
realtà non è posta in prima istanza dall'esperienza sensibile ma
dall'esperienza delle tracce originali degli esseri mitici, in breve
dall'esperienza delle ierofanie.

La concezione del mondo moderno, completamente profana, non orientata
per rapporto ad alcun valore trans-storico, è stata prefigurata dal
giudaismo e dal cristianesimo che tramandano una nozione di tempo
lineare, in cui la storia prende il posto degli avvenimenti del mito. Si
può dire, in qualche modo, che nelle religioni abramiche la storia
stessa è mitizzata: la Pasqua non è più, come presso i popoli cananei,
una semplice festa della primavera ma la commemorazione dell'uscita del
popolo ebreo dall'Egitto: la passione di Cristo non ha luogo in illo
tempore, all'origine del tempo o nel tempo del sogno, come presso le
popolazioni australiane, ma si è svolta in un momento storico
determinato, sotto il procuratore Ponzio Pilato, ecc.

Concepita in questo modo, la dicotomia sacro-profano gioca un ruolo di
primo piano nell'antropologia filosofica di Mircea Eliade. Esposta in
numerosi saggi, da Il mito dell'eterno ritorno (1949) a La nostalgia
delle origini (1971), l'antropologia filosofica di Eliade non ha nulla
della dottrina sistematica. Si fonda su alcune premesse di ordine
fenomenologico come pure sulle teorie della psicanalisi di Carl Gustav
Jung.
L'uomo moderno vive disorientato
Eliade fa propria, dal pensiero di Jung, l'idea di sopravvivenze
arcaiche nell'inconscio dell'uomo moderno. L'uomo moderno porta in sé il
paradosso di un'esistenza a due livelli differenti e paralleli, fra loro
incompatibili per la coscienza di sé: da una parte il livello storico,
organizzato secondo uno schema di adeguamento ad una situazione
alienante, e dall'altra il livello mitico, cioè la sua struttura
psichica profonda, organizzata secondo uno schema simbolico. L'uomo
storico continua a vivere inconsciamente secondo le stesse categorie
dell'uomo premoderno: la sua vita inconscia è infatti strutturata ancora
secondo uno schema di iniziazione implicito nel suo contatto con la
storia. Questa situazione può essere definita, secondo la formula dello
psicanalista Erich Neumann, come un "rituale del destino"; l'uomo
moderno subisce la prova iniziatica della storia, è inconsciamente
iniziato all'esistenza responsabile per il fatto stesso della sua
storicità. È così che Eliade recupera, d'altronde, l'esistenza nel mondo
dell'uomo moderno: assegnandogli ancora un modello mitico.

La problematica del rituale del destino ritorna molto spesso nella
creazione letteraria di Eliade. Questa, a fianco di alcuni romanzi
realisti, la maggior parte dei quali ancora inediti in Francia [e anche
in Italia n. d. t.] e di un romanzo sperimentale (Luce che si spegne,
1934), comprende diversi romanzi e racconti fantastici, quasi tutti
ormai disponibili in traduzione.
All'inizio i racconti fantastici rispondono ad una convinzione espressa
nell'eccellente saggio Il folklore come mezzo di conoscenza (1937): dal
momento che tutti i fenomeni paranormali sono reali, le straordinarie
azioni fantastiche che Eliade espone nei suoi romanzi -spostamento dei
personaggi nello spazio e nel tempo, facoltà di azione magica, "uscita
dal corpo", addirittura vampirismo (La signorina Cristina, 1936,)- sono
esse stesse reali.
In seguito Eliade elabora una teoria del "miracolo inconoscibile", che
giunge ad una specie di "sincronicità" nel senso junghiano della parola.
Si sa, in effetti, che Jung negava la relazione causale fra gli elementi
di un pronostico (ad esempio la carta del cielo nell'astrologia) e la
realizzazione di esso. Tuttavia egli ammetteva l'esistenza di ciò che
chiamava "sincronicità".

Nella seconda fase della letteratura fantastica di Eliade, il racconto
di straordinarie gesta soprannaturali resta pressoché invariato, col
primato assoluto dello spostamento nel tempo ("scivolamento" di strati
di tempo l'uno sull'altro, discontinuità temporale, ecc.). Sono i
personaggi a cambiare del tutto, e l'atteggiamento nei confronti di ciò
che accade loro. È l'"idiota" dell'estetica espressionista (L'uomo che
passava attraverso i muri di Marcel Aymé, L'uomo con la rosa del
drammaturgo rumeno George Ciprian, ecc.) che ora fa la sua apparizione
nella prosa di Eliade, specialmente nei racconti come I Bohémiennes
(1959), 14.000 capi di bestiame (1959), Il vecchio e l'ufficiale (1968),
ecc.
Nel grande romanzo, in parte autobiografico, La foresta proibita il
ruolo dell'"idiota" è attribuito all'antieroe per eccellenza Stéphane
Viziru, il cui problema fondamentale è l'irruzione del soprannaturale
nel reale, la premonizione e la sua interpretazione. Stéphane è un uomo
moderno, un uomo comune la cui esistenza storica è turbata da una serie
di "sincronicità". Lo spazio spalancato della notte dell'inconscio che
si era socchiuso per lui ne prova compassione e nel finale lo assorbe
completamente.

Il terzo periodo della letteratura fantastica di Eliade, risponde ad una
intenzione di recupero di tutti quelli che soffrono, delle coscienze
alla deriva, e si distingue nettamente in rapporto ai primi due.
Quest'ultima metamorfosi di Mircea Eliade narratore si manifesta a
partire dal racconto Uniformi di un generale (1974) che inaugura tutto
un ciclo, da noi chiamato "ciclo dello spettacolo e della crittografia".
Esso contiene tutte le ultime novelle di Eliade: L'agente segreto di
Bhuchenwald, Le tre grazie, La pellegrina, La vita di un centenario,
Diciannove rose e Dayan. Il passaggio dal "ciclo dell'idiota" al "ciclo
dello spettacolo" avviene con la novella Alla corte di Dioniso,
pubblicata per la prima volta nella "Rivista degli scrittori rumeni"
(Monaco, 1968, pp. 24-66).

Nel primo ciclo, quello di Notti a Serampore, Il segreto di dottor
Honigberher, Il serpente, che potrebbe chiamarsi "ciclo indiano",
primeggia lo specialista del sacro. Nel secondo l'idiota, il povero di
spirito prende il posto dello specialista. Ma in ambedue i casi si
tratta di un'irruzione del fantastico nel quotidiano.

Reminiscenze dell'idiota -del quale bisogna sottolineare il carattere
positivo che l'idiota triumphans ha avuto in Nicolò Cusano e, in
seguito, in tutta la tradizione cristiana- permangono nel terzo ciclo,
così come altre tematiche eliadiane. Ma, in generale, questo "ciclo
dello spettacolo e della crittografia" ci confronta con personaggi e
problematiche nuove. Il fantastico, non irrompe più nel quotidiano, ma
viene messo in rapporto con la scienza moderna e con la crittografia: da
qui il ruolo decisivo attribuito al poliziotto, al crittografo che crea
un mito proponendo l'esistenza di un enigma. I procedimenti di
decifrazione giocano un ruolo di primo piano nello spettacolo
organizzato da giovani alla ricerca della libertà assoluta e occupano un
posto centrale in molti scritti di questo ciclo.
Non è più questione, adesso, di un miracolo: "Noi siamo condannati alla
libertà assoluta", dice un personaggio nel finale di Diciannove rose. E
il tentativo di decifrare i messaggi in codice che appaiono senza
significato, tendenti a disorientare la polizia, dà un risultato
meschino: "Ci sono ben stati dei poveri di spirito in questo mondo fino
a noi. Ma il più celebre di essi resta Parsifal. Infatti egli fu il solo
a chiedere: Dov'è la coppa del Santo Graal? [...] Che
meschinità! -continuò in tono affaticato, lontano- che meschinità,
questo Graal che ci è stato comandato di cercare. Di cercare e di
ritrovare! [...]" (La pellegrina, in "Ethos" 3, pp. 35-36).

La decifrazione, essenziale alla narrazione in questo "ciclo dello
spettacolo e della crittografia", non mette capo a "nulla". Nondimeno,
il significato dell'esistenza nel mondo, di questa esistenza qui,
fondandosi sul "nulla", è condannato alla libertà assoluta, e non può
darsi che mediante un'operazione di decifrazione.

Eliade, mistagogo dei tempi moderni
È possibile attribuire a Eliade l'appellativo di mistagogo. Presso gli
antichi Greci il mistagogo era il sacerdote che presiedeva
all'iniziazione ai misteri e quindi, per estensione, un maestro, una
guida. Questo è uno dei significati della parola. Ve n'è tuttavia un
altro che, senza essere peggiorativo, indica un processo artificiale: il
mistagogo è qualcuno che inventa dei misteri ed attira gli altri a
seguirlo nella sua strada. Ambedue i significati si addicono ad Eliade:
egli è il maestro, l'iniziatore ai misteri da lui stesso inventati.

Inutile insistere sullo statuto e l'importanza dell'ermeneutica
nell'opera scientifica di Eliade, illustrata da Adrian Marino nel suo
libro pubblicato in Francia nel 1981. Nelle memorie e nei diari di
Eliade l'ermeneutica acquista uno statuto esistenziale, che viene
sottolineato più volte. È attraverso l'attività ermeneutica che Eliade
affronta e comprende alcuni episodi della propria esistenza, così come
della cultura moderna: ad esempio lo yoga e il tantrismo lo aiutano a
rivalutare certe esperienze anarchiche della sua adolescenza, in cui
riduceva le sue ore di sonno e rinforzava la sua volontà inghiottendo
sostanze ripugnanti; l'amore gli rivela il mistero della totalità. Così,
altrove, indica dei parallelismi fra le teorie della fisica moderna e le
esperienze mistiche.

Nella letteratura di Eliade, l'ermeneutica conserva un carattere di
essenzialità e viene elevata a fondamentale tecnica di sopravvivenza e
di liberazione. La ricerca di senso è un'attività propria dell'uomo, ed
egli non può sopravvivere che nella misura in cui ne abbia uno:
raggiungere la liberazione significa aver trovato un senso. Ora,
l'ermeneutica è appunto l'operazione che attribuisce un senso. Bisogna
che ciascuno cerchi il suo Graal per proprio conto. La ricerca del Graal
è un'attività essenzialmente ermeneutica. Il "primo" Eliade, il teorico
del miracolo e della sua irruzione nel mondo, credeva ad un senso
trascendente la stessa ermeneutica. Il "secondo" Eliade, quello del
"meschino Graal [...] cercato e trovato" crede che il senso sia posto
dall'ermeneutica.
Così il mistagogo, che si comportava da iniziatore a misteri oggettivi e
trascendenti l'operatore, si rende conto di non essere che un inventore
di misteri che si serve dei mezzi dell'ermeneutica. Nella letteratura di
Eliade, lungo le sue tre tappe o cicli, la matassa della trascendenza si
dipana in modo che alla fine, nel terzo ciclo, l'uomo non si ritrova
separato dal nulla (la "libertà assoluta") che dalla sottile parete
dell'ermeneutica.

A questo punto tutto il messaggio di Eliade potrebbe essere riassunto in
queste parole: per sopravvivere bisogna praticare l'ermeneutica. Quanto
alle modalità dell'ermeneutica, quella che più si confà all'uomo è la
crittografia. Bisogna sempre decifrare dei misteri, infatti la
decriptazione non è fatta per dissipare il dubbio: al contrario essa lo
crea, essa è il meccanismo produttivo del mistero. Ciò su cui questo
meccanismo si esercita non ha invero importanza: al limite ci si può
servire delle macchie di muffa su un muro (L'agente segreto di
Buchenwanld) -tesi con la quale Eliade raggiunge l'altro grande
mistagogo moderno, Jorge Luis Borges. Ma questa operazione è efficace a
condizione che il mistero non venga svelato, o per meglio dire, che non
si riesca a decriptare il messaggio cifrato. In questo caso il senso che
si ottiene è sempre ridicolo per la sua scarsa importanza, non è che un
"miserabile Graal". Il Graal non può essere veramente produttore di
senso, di elevazione morale e d'equilibrio che durante la sua ricerca:
quando lo si trova -come dire: quando la facoltà ermeneutica non si
esercita più- esso produce la morte. Infatti il Graal è il nulla e la
sua ricerca non è ciò che ad esso ci avvicina ma ciò che da esso ci
separa.
Certo, vi saranno dei fedeli di Eliade che protesteranno: bisogna
cercare per così lungo tempo per capire che fra il nulla e il Graal non
vi è alcuna differenza? Ma, come Eliade stesso, ognuno lo comprenderà
solo al momento opportuno, sicché questa rivelazione non sarà meno
straordinaria di qualunque altra. E al tempo stesso meno terribile.

La funzione del mistagogo è di istruire e di accompagnare. Non vi può
essere un mistagogo senza fedeli. Mircea Eliade non ha istituito dei
veri misteri. Con i suoi libri egli si rivolge al mondo intero: tutti i
suoi lettori sono suoi fedeli. E a coloro che lo accostano, Eliade
risponde con un intenso ed uguale irraggiamento d'amore. Che è
l'imperativo del "santo": donare a tutti, senza discriminazione, tutto
il proprio amore. Un impegno tardivo, che ha inizio con un esercizio di
cui testimoniano molti dei suoi romanzi: amare due donne alla volta con
lo stesso amore imparziale ed indivisibile. Come la diminuzione delle
ore di sonno non può effettuarsi che un minuto per notte, così
l'irraggiamento universale d'amore non si può ottenere che cominciando
dal caso meno complicato: provare ad amare due esseri diversi con tutto
il proprio amore, per arrivare più tardi all'umanità intera. Questo è il
metodo del dottor Payot applicato alla santità.

Eliade è arrivato così lontano su questa via che potrebbero senza dubbio
applicarsi a lui le parole del 49° capitolo del Tao-te-king: "Il saggio
è senza cuore; il suo cuore è il cuore della sua gente. Io sono buono
con il buono ed ugualmente con il malvagio, infatti è la virtù in se
stessa che è buona. Io sono sincero con chi è sincero ed ugualmente con
il traditore, infatti è la virtù in se stessa che è sincera. L'esistenza
del saggio nel mondo non è tranquilla: il suo cuore si irraggia su tutti
i mortali; il suo popolo si lega a lui e il saggio lo tratta come se
tutti fossero suoi figli."

Ma l'attività di mistagogo di Eliade può essere ancora meglio chiarita
che con una parabola appartenente alla saggezza d'Oriente. Il "Sutra del
Loto", la Saddharma-pundarika buddista, afferma che la probabilità che
l'uomo riesca a raggiungere la liberazione nel corso di questa esistenza
non è più grande di quella che una tartaruga guercia affiori alla
superficie dell'acqua nel preciso momento in cui un tronco forato passa
al di sopra del suo occhio sano, in modo da potersi arrampicare,
passando per il foro, sopra il tronco. La tartaruga è guercia: la sua
possibilità di orientamento è ristretta. La probabilità che il tronco
sia bucato è minima. Il tronco naviga a caso, percorrendo tutte le acque
del mondo: la probabilità che esso passi giusto sopra la tartaruga è
infima. C'è poca speranza di ottenere la liberazione. Ma, giustamente,
la funzione del mistagogo è quella di gettare in acqua dei pezzi di
legno bucati destinati alle tartarughe guercie.

Questo è il ruolo che Mircea Eliade si è dato. La sua letteratura,
soprattutto i racconti, consiste di questi "pezzi di legno" la cui
funzione è di attirare le tartarughe guercie ad un esercizio veramen
te
inabituale, un esercizio che è stato rappresentato anche in uno dei
capolavori dello scultore Costantin Brancusi: La tartaruga volante.



(*) Ioan P. Couliano, tragicamente scomparso all'inizio del 1991,
insegnava Storia delle Religioni all'Università di Groninga; ha scritto
Esperienze dell'estasi, Eros e magia nel Rinascimento, I Viaggi
dell'anima.

 Dal sito 'In Quiete'
 il sito di Gianfranco Bertagni

giovedì, luglio 11, 2013

''Siamo all'alba di una rivoluzione planetaria: potremo sopravvivere o essere condannati all'insussistenza''


di Franco Cardini



- Le rivoluzioni della modernità analizzate da un grande storico. Al giro di boa del III millennio le prospettive di un futuro che un sistema mediatico menzognero ci impedisce di comprendere -


l generale malessere del mondo, la crisi presente in molti paesi europei, la situazione di stallo segnata dai paesi arabi nei quali troppo presto e con scarsa cognizione di causa si era parlato di “primavera”, l’incerto e contraddittorio ritorno di alcune potenze occidentali (segnatamente la Francia) a strumentalizzare i movimenti islamisti, il disagio registrato da quelle che potrebbero venir presentate come “rivolte antifondamentaliste” in Egitto e in Turchia, hanno ricondotto d’attualità presso i media una domanda per molti versi drammatica: non c’è forse ormai bisogno di una rivoluzione per ridefinire gli immensi problemi che ormai si stanno intrecciando fra loro e magari azzerarli e ricominciare? Ma è possibile tale rivoluzione? Ed è possibile che essa si verifichi sul serio in qualche parte del mondo, oppure la realtà globalizzata è tale ch’essa stessa, per riuscire, dovrebbe essere globale? Proviamo, per avviare una risposta storica a tale qustione, a precisare alcuni punti.

Il concetto di “rivoluzione” è, in origine, astronomico: indica il giro completo che nel sistema solare i pianeti compiono attorno al sole per tornare al punto di partenza.

Ma la parola, che per noi è ormai sinonimo di totale e sconvolgente mutamento di assetto sociopolitico, per giunta di solito rapido e violento, fu impiegata nella sua accezione attuale per la prima volta nell’Inghilterra del Seicento, col significato di un movimento che, attraverso una pratica di cambiamento radicale della situazione politica, mirava a riacquistare e a imporre di nuovo sulla terra e nella storia l’originaria condizione umana di libertà e di uguaglianza, quindi a compiere l’opera divina di Redenzione. Tale la natura del concetto di “rivoluzione” in quel movimento che alla fine del Seicento condusse al trono Guglielmo di Orange e che fu la glorious revolution.

Un centinaio di anni dopo, nella Parigi dei philosophes e dei giacobini, tutto era cambiato. Era già stato il cristianesimo a sostituire l’idea del tempo lineare, con un principio e una fine, a quella ch’era stata la tenace idea tradizionale del tempo circolare e dell’Eterno Ritorno, i cristiani ne avevano sostituita un’altra che aveva come perno l’incarnazione e come estremi la Creazione e la Fine del Mondo: tuttavia l’anno liturgico e l’anno lavorativo agrario, entrambi radicati nel ritmo circolare delle stagioni, aveva a lungo mantenuta viva nei popoli l’idea del tempo ciclico, magari corrotta dal pessimismo esiodeo e lucreziano in un susseguirsi spiraliforme di ere l’una peggiore dell’altra (d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro), giù fino alla ferrea proles, il kali-yuga dei Veda.

Ma con la Rivoluzione si aprì un’età nuova: e, come il Carducci fa dire al Goethe all’indomani della battaglia di Valmy, una “novella istoria”. La rivoluzione inglese, per quanto giunta al termine di una lunga gestazione durante la quale si era addirittura potuto decapitare un re, nel ridefinire i patti tra il sovrano e il popolo con la nuova casa d’Orange rafforzò, rinnovandola, la monarchia. La rivoluzione, dopo i suoi primi incerti e contraddittorii inizi, al contrario non solo rovesciò il trono e l’altare e decapitò la coppia regale, ma sostituì al principio della fedeltà incrollabile alla corona e alla dinastia quello della fedeltà a qualcosa di vecchio quanto al nome, ma di nuovo quanto al concetto: la nazione.

Il Settecento è difatti non solo il secolo dell’invenzione della tradizione, come l’ha definita Eric Hobsbawm, bensì anche quello dell’invenzione della nazione come realtà etno-socio-linguistico-culturale non tanto nuova in sé – di nationes già si parlava nell’impero romano e come gentes o nationes si qualificavano nelle traduzioni latine della Bibbia i popoli non-ebrei – quanto nuova nella misura in cui, fra i suoi diritti primari, le si rivendicava quello di costruire uno stato di sua esclusiva eprtinenza, uno “stato nazionale”.

La Rivoluzione francese sta quindi all’inizio di un complesso e polimorfo movimento dinamico che anima e informa di sé i suoi secoli presenti: afferma solennemente i principii di libertà individuale ma al tempo stesso di eguaglianza tra individui e tra qualunque tipo di forma societaria, incurante delle divergenti dinamiche che i due princìpi in realtà avviavano e della paradossale loro reciproca incompatibilità se assunti in senso assoluto, dal momento che la libertà di ciascuno uccide fatalmente l’uguaglianza, e questa non può se non affermarsi distruggendo quella.

Non solo: distinguendo una liberta di (di parola, di pensiero, di espressione, di confessione religiosa, di proprietà) da una libertà da (dalla dogmatica, dall’autoritarismo, dalla tirannia, dalla fame, dalla malattia, dalla paura), si traccia privilegiando quest’ultima la strada verso l’uguaglianza non solo giuridica, bensì anche economica e sociale. In questo senso però la rivoluzione francese, sfociando nelle soluzioni “borghesi” e “liberali” di Termidoro e dell’autoritarismo militarista napoleonico, resta “incompiuta” e in parte nega se stessa – da qui le tesi di chi vorrebbe far cominciare la Restaurazione non già dalla caduta dell’imperatore dei francesi, bensì al contrario proprio dal consolato e poi dall’impero -: liberalismo e socialismo, in effetti, risultano strettamente collegati e in qualche modo complementari, o quanto meno questo il naturale esito sotto forma di reazione rispetto a quello.

Durante il XIX secolo e poi all’inizio del XX, abbiamo assistito alla corsa all’egemonia tra le potenze europee due delle quali (Francia e Inghilterra) avevano imboccato senza sostanziali esitazioni la strada capitalistica e il sistema democratico rappresentativo liberale, mentre altre due (Prussia-Germania e Austria-Ungheria) mostravano di voler accompagnare allo sviluppo capitalistico e liberistico un sistema politico fondato su forme di rappresentanza a carattere sostanzialmente consultivo e altre due ancora (impero czarista russo e impero sultaniale ottomano) apparivano intente ad affrontare i problemi della multinazionalità/pluriculturalità e della modernizzazione, per il secondo dei quali necessitavano in vari e differenti modi del sostegno finanziario, imprenditoriale e tecnologico delle potenze occidentali, in cambio accettando con certe limitazioni la loro alleanza (la Russia) o la loro penetrazione egemonica (l’impero ottomano).

Frattanto, in Asia, altre compagini imperiali si stavano ponendo il problema della modernizzazione-occidentalizzazione (il Giappone, la Cina, la Persia), mentre non insensibili al fascino dell’occidente e alle idee nazionali –per loro del tutto nuove – apparivano i paesi arabi. Queste differenti e contrastanti prospettive determinavano delle fatali rotte di scontro: tra la Russia e l’Inghilterra per l’egemonia sull’Asia centrale (il Great Game); tra la Russia e la Turchia ottomana per quella sul Mar Nero e sugli Stretti (Bosforo-Mar di Marmara) in quanto la Russia czarista intendeva affacciarsi sul Mediterraneo; ancora tra la Russia e l’Austro-Ungheria per la spartizione dell’area balcanica nella quale la potenza sultaniale stava sbriciolandosi (e in quell’area la Russia intendeva non solo raggiungere anche là il Mediterraneo, ma anche proporsi come stato-guida del mondo slavo e della compagine religiosa ortodossa); tra l’Inghilterra e la Turchia in quanto Sua maestà Britannica, una volta aggiunta alle sue corone quella imperiale d’India, aveva bisogno di egemonizzare il Vicino Oriente per mantenersi libero il passaggio del Canale di Suez e assicurarsi che mai sarebbero sorte potenze sue concorrenti sulle coste settentrionali e occidentali dell’Oceano Indiano.

La detenzione e il controllo sia di Gibilterra, sia di Suez, sia della fortezza di Malta, faceva intanto sì che l’Inghilterra potesse considerare il Mediterraneo un “lago britannico”: ma ciò sottintendeva la necessità di controllare in quel settore gli sviluppi navali sul piano tanto militare quanto civile e commerciale di Francia e di Spagna, e stabilire una sorta di “alleanza egemonica” con Portogallo e Italia.

Infine, quando con Guglielmo II anche il capitalismo e il militarismo tedesco ebbero scelto di giocare a loro volta a fondo le carte del colonialismo africano e della corsa allo sviluppo cantieristico e nautico, quindi dell’accesso della Germania a una politica egemonica oceanica in concorrenza con l’Inghilterra, tutto sarebbe stato pronto per lo scoppio della “guerra dei Trent’anni”, quella 1914-1945, che vanno considerate congiunte in quanto la seconda rappresenta un’inevitabile prosecuzione della prima a causa degli iniqui patti di pace di Versailles alla fine di essa e dell’insorgere dei totalitarismi, che è necessario interpretare come una risposta al fallimento della gestione liberal-liberistica della “questione sociale” nata nell’Ottocento e aggravatasi nel Novecento e dell’incapacità della classe dirigente capitalistica dell’Europa occidentale di risolvere i problemi delle società di massa.

A tutto ciò vanno uniti almeno tre ulteriori, decisivi fattori: primo, l’insorgere della questione petrolifera a causa degli sviluppi della tecnologia moderna e delle scoperte dei giacimenti soprattutto vicino-orientali: secondo, il progressivo affermarsi della nuova potenza statunitense con una progressiva azione egemonica sul mondo; terzo, lo sviluppo in funzione prima anticolonialistica, quindi – dopo il secondo conflitto mondiale – antineocolonialistica delle istanze di libertà e di affermazione nazionale dei nuovi paesi emersi dallo scomporsi del sistema coloniale.

Oggi, siamo pervenuti a una fase critica del cosiddetto processo di globalizzazione, avviatosi nei secoli XVI-XVIII con le grandi scoperte geografiche, le invenzioni, lo sviluppo scientifico e la prima “rivoluzione industriale” e giunto quindi alle ulteriori rivoluzioni – la petrolifera, la nucleare, la tecnologico-spaziale, la tecnologico-genetica, l’informatico-telematica – che hanno in pochi decenni sconvolto il panorama ecoantropologico e messo profondamente in discussione il rapporto, già del resto dinamico, tra uomo, cosmo e natura.

D’altronde, il netto predominio dell’Europa e di quello che dal Settecento in poi si è autodefinito l’Occidente nei confronti del resto del mondo è stato caratterizzato dalla violenza e dallo sfruttamento colonialistici e dal drenaggio continuo delle ricchezze dei continenti extraeuropei messo in atto attraverso l’economia-mondo e il cosiddetto “scambio asimmetrico”.

Nonostante segnali importanti come l’abolizione dello schiavismo (del resto coincidente con il crescente e sistematico sfruttamento dei ceti subalterni all’insegna di un’uguaglianza giuridico-formale che nascondeva profonde disuguaglianze), nessun occidentale pareva curarsi – al di là delle denunzie di alcuni spiriti eletti – che le premesse eticosociali delle grandi rivoluzioni settenovecentesche, con i loro valori “universali”, erano tutte disattese dalla pratica della dominazione coloniale.

Contraccolpi come il diffondersi del socialismo in Asia, Africa e America latina durante la seconda metà del Novecento e l’insorgere poi del fondamentalismo musulmano, radicato nella frustrazione e nella delusione del mondo islamico nei confronti delle mancate promesse e degli inganni, erano del tutto prevedibili e sono stati storicamente parlando ovvi e legittimi. Anche se e nella misura in cui non hanno conseguito sempre e del tutto gli scopi che si erano prefissi.

Al riguardo, si è obbligati a segnalare con energia un grossolano e gravissimo inganno che alcuni governi e alcuni media hanno cercato di perpetrare ai nostri danni a proposito dei movimenti musulmani cosiddetti “fondamentalisti”, ora elogiati come “combattenti della libertà” (dall’Afghanistan del tempo della guerra di liberazione antisovietica fino alle vicende del Kosovo e, più di recente, a proposito della Libia e della Siria), ora implacabilmente demonizzati com’è accaduto all’indomani dell’11 settembre 2001, una tragedia il carattere della quale resta ancora nell’ombra – nonostante la trionfalistica conclusione di troppe fasulle inchieste – e che è stata cinicamente strumentalizzata per aggredire l’Afghanistan nel 2001 e l’Iraq nel 2003, scatenando disordini, guerre civili e forme d’ingovernabilità ormai cronicizzatesi.

Quelle aggressioni hanno prodotto anche autentici mostri sotto il profilo del diritto internazionale, come il carcere di Abu Ghraib dove si torturavano orribilmente i detenuti e quello di Guantanamo che continua a sussistere nonostante la sua evidente illegalità della quale è responsabile il governo degli Stati Uniti d’America. E si è altresì costretti a denunziare l’illusione e la truffa delle cosiddette “primavere arabe”, un’invenzione mediatica escogitata per giustificare in qualche modo dinanzi all’opinione pubblica mondiale la cacciata dalla Tunisia e dall’Egitto di due dittatori feroci e corrotti, entrambi amicissimi dei governi occidentali, ed elaborata in modo da mascherare la feroce repressione che alcuni governi arabi sunniti tanto religiosamente esclusivisti quanto politicamente filoccidentali (l’Arabia Saudita e gli emirati del Qatar, del Bahrein, dell’Oman) mettevano in atto per scatenare una durissima persecuzione contro i loro stessi sudditi di confessione sciita, esportando poi la fitna (guerra civile nei paesi musulmani) in direzione della Libia prima, della Siria poi, e nelle intenzioni forse perfino verso l’Iran.

Ai giorni d’oggi, gli stessi governi islamistici sunniti moderati, come Turchia ed Egitto, stanno subendo nei loro paesi il contrattacco di forze che all’esterno i media presentano come “laiche”, mentre il fatto che lo stesso governo israeliano si sia dimostrato come tutt’altro che entusiasta dinanzi alla prospettiva di una vittoria delle forze ribelli in Siria (temendo non ingiustificatamente che esse una volta al potere riaprirebbero la questione del Golan, che il governo assadista di Damasco si è nella sostanza rassegnato a lasciare nelle mani d’Israele) ha preso di contropiede quegli occidentali che si erano dimostrati più nethanyahunisti di Nethanyahu, quali gli impagabili Bernard-Hénri Lévi e Magdi Allam.

Il quadro è quindi complesso, ma siamo quindi giunti forse adesso alla resa dei conti. Se per rivoluzione la Modernità ci ha abituati a intendere un radicale e profondo mutamento negli equilibri non solo giuridici, civili, economici e sociali, ma anche nelle prospettive etiche e addirittura esistenziali, possiamo dire che dopo il blocco rappresentato dalle quattro grandi rivoluzioni sociopolitiche dei secolo XVIII-XX (l’americana, la francese, la sovietica, la cinese) noi siamo oggi chiamati ad affrontare una nuova rivoluzione di portata epocale, i tratti fondamentali della quale sono due.

Primo: l’eclisse per ora irreversibile delle istituzioni pubbliche, anzitutto di quelle statali, accompagnata dalla crescente importanza di lobbies multinazionali private sottratte a qualunque controllo, con la conseguente riduzione dei governi statali e delle classi politiche a “comitati d’affari” e, parallelamente, l’avanzare di un “irresistibile” (che qualcuno vorrebbe presentare come “inarrestabile”, con non disinteresasto determinismo) processo di concentrazione della ricchezza, di proletarizzazione dei ceti medi e di generale impoverimento della società civile del mondo, già caratterizzata da abissali e intollerabili sperequazioni.

Secondo: il passaggio – mirabilmente interpretato da Zygmunt Bauman – dalla “Modernità solida”, caratterizzata da una tensione verso l’individualismo il più possibile assoluto e dalla volontà di potenza della società occidentale, con il correlativo processo di secolarizzazione, alla “Modernità liquida” (il “Postmoderno”) nella quale questi valori e atteggiamenti sono messi in crisi, si contesta l’individualismo, rinascono forme di solidarismo, si ricercano nuovi stili qualitativi di vita, riaffiorano le esigenze religiose.

Terzo: l’affacciarsi alla ribalta della storia di nuovi popoli e di nuovi stati, specie asiatici, africani e latino-americani, che contestano il carattere eurocentrico e occidentocentrico della storia così com’è stata interpretata fino ad oggi e rimettono all’Occidente il conto di un’egemonia durata mezzo millennio durante il quale i governi liberali occidentali hanno usato quegli stessi metodi che l’Occidente ha rimproverato ai totalitarismi quando essi li hanno usati all’interno della sua compagine.

La rivoluzione del futuro, quella che ci sta davanti mentre avanzano le nuove potenze del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina, cui si dovrà forse aggiungere tra non molto l’Iran), dovrà pertanto, se vorrà aver caratteristiche positive per l’intero genere umano, essere caratterizzata da due elementi: primo, una profonda ridistribuzione a livello mondiale della ricchezza, che riequilibri i rapporti internazionali e quelli interni a ciascuna compagine civile rappresentando così da sola un importante fattore di pace altrimenti inconseguibile in quanto senza giustizia sociale la pace è impensabile; secondo, una vera e propria rivoluzione sul piano dei consumi, del rapporto con l’ambiente, degli stili di vita.

Questa rivoluzione potrà anche non verificarsi, oppure fallire: ma allora saremo tutti condannati.
( Totalità, 11/07/2013)

sabato, giugno 15, 2013

Marcello Staglieno


Ho sentito l'ultima volta Marcello ai primi di gennaio di quest'anno ed era felice per averla scampata bella dal male tremendo. 



Mi illustrò le terapie seguite e i suoi prossimi appuntamenti importanti: il matrimonio del figlio (di cui era orgogliosissimo), al quale mi invitò per il prossimo luglio, orgoglioso del fatto che la futura nuora fosse una nobile e cattolicissima giovane di antico casato tedesco, la stesura di un libro sull'amatissimo Ernst Junger, gli ultimi ritocchi all'arredamento del nuovo centralissimo appartamento di Milano da parte dell'attenta e perfettissima moglie Monica per aprirla alla frequentazione degli amici in un clima di rinnovata serenità e fiducia nella vita.



Per un invito a cena riservata a due ospiti molto cari, mi ringraziò poi per il Cannonau che gli avevo inviato, annunciandomi che avrebbe festeggiato l'evento, tirando il collo ad alcune delle bottiglie appena arrivate.



Inutile dire che fu, more solito, premuroso e gentile, profondamente vicino, sollecito e pronto ad ascoltarmi come solo un vero amico è in grado di fare. 



La notizia della sua scomparsa mi attanaglia l'animo e mi rende orfano: Marcello era un personaggio antico e moderno al tempo stesso, generoso, esuberante, coltissimo, ricco di esperienze intellettuali e di vita pratica, anche avventurosa, assai preziose; fu spesso, per scelta di Indro, un alter ego di Montanelli, il prediletto fra i suo illustri collaboratori, un principe del giornalismo culturale, un anarco-conservatore dalle sensibilità finissime, un galantuomo ed un vero signore come ormai si è persa la traccia.



Una volta mi disse, nel suo buen retiro di Carro, che avrebbe voluto morire in battaglia... 
E così è stato, al di là delle apparenze. Una fine esemplare da uomo virile, dalle qualità aristocratiche e dalle rare virtù civili. Indimenticabile e insostituibile.

mercoledì, gennaio 16, 2013

Michele Marsonet: Solidarietà e mercato

Si legge spesso sui giornali che,‭ ‬in una democrazia liberale,‭ ‬legalità e etica sono cose diverse,‭ ‬ragion per cui la dimensione etica dev’essere nettamente distinta da quella politica ed economica.‭ ‬I liberisti odierni hanno ragioni da vendere quando mettono in guardia contro i pericoli di‭ “‬politicizzazione‭” ‬dell’economia,‭ ‬e ciò è ancor più giustificabile nel caso italiano,‭ ‬soprattutto rammentando quanto è avvenuto nel nostro Paese durante gli ultimi decenni.‭ ‬Tuttavia occorre chiedersi se,‭ ‬tra l’infeudamento dell’economia alla politica da un lato,‭ ‬e l’individualismo quale unico metro di giudizio dall’altro,‭ ‬non esistano davvero altre strade praticabili.‭ ‬Il liberismo,‭ ‬in altre parole,‭ ‬non può essere un dogma da difendere a ogni costo,‭ ‬e la fine ingloriosa di coloro che sui dogmi costruirono le loro fortune passate dovrebbe indurre tutti ad adottare un sano realismo quando si discute di questi temi.
Ipotizzare un individuo isolato dalle cui scelte,‭ ‬in meccanica congiunzione con le scelte degli altri individui,‭ ‬si possa dedurre l’intera struttura della vita sociale,‭ ‬è mera utopia.‭ ‬Ed è un’utopia che è la speculare controparte dell’idea secondo cui l’intera struttura della vita sociale può essere dedotta dalla‭ “‬classe‭” ‬intesa come entità a se stante.‭ ‬Si tratta,‭ ‬in ogni caso,‭ ‬di ipostatizzazioni che nulla hanno a che fare con la vita concreta‭; ‬nel primo caso si presuppone la presenza di un mitico individuo isolato,‭ ‬nel secondo l’altrettanto mitica presenza di una classe che prescinde dagli individui che la compongono.
In realtà,‭ ‬sin dalla nascita noi non siamo mai individui isolati,‭ ‬bensì individui che agiscono in un contesto sociale.‭ ‬Facciamo insomma parte di un gruppo che si è dato delle regole,‭ ‬e queste regole determinano il senso stesso delle nostre azioni.‭ ‬Non solo.‭ ‬Il nostro gruppo è parte di un gruppo più vasto,‭ ‬e quest’ultimo è parte di un gruppo più vasto ancora,‭ ‬e così via,‭ ‬sino a giungere al gruppo più vasto in assoluto,‭ ‬includente tutti coloro che vengono definiti esseri umani.‭ ‬Si noti,‭ ‬ad ogni buon conto,‭ ‬che risulterebbe assai difficile determinare che cosa sia un individuo prescindendo dall’intera rete di relazioni sociali che fissano i criteri in base ai quali si svolge la sua vita.
Tuttavia occorre aggiungere ancora qualcosa per completare il quadro.‭ ‬L’insieme delle relazioni sociali di cui abbiamo appena parlato dà vita al mondo sociale,‭ ‬e tale mondo ha via via conquistato una sua dimensione autonoma che è difficile contestare.‭ ‬Istituzioni,‭ ‬forme di governo,‭ ‬regole,‭ ‬etc.‭ ‬sono certamente prodotti del genere umano,‭ ‬ma la loro forza è tale da produrre ciò che oggi si chiama‭ “‬reazione di feed-back‭” (‬retroazione‭)‬,‭ ‬grazie a cui essi sono influenzati dalle azioni degli individui ma,‭ ‬a loro volta,‭ ‬le influenzano.‭ ‬Se non teniamo conto di questo fatto,‭ ‬diventa arduo dare un senso alle nostre stesse azioni.
Se io e alcuni di voi decidessimo oggi di dar vita a un circolo culturale,‭ ‬è evidente che l’esistenza di tale circolo dipenderebbe da quella degli individui che lo hanno creato.‭ ‬Tuttavia,‭ ‬non è affatto meno evidente che l’esistenza del circolo influenzerebbe la nostra,‭ ‬in quanto la sua creazione ci differenzia da tutti gli altri individui che non ne sono membri.‭ ‬Ma si può pure notare che,‭ ‬dando vita al circolo,‭ ‬noi in un certo senso trascendiamo il presente per proiettarci nel futuro,‭ ‬in quanto il nostro circolo presumibilmente si propone di organizzare delle attività destinate a migliorare il livello culturale nostro e di altre persone.‭ ‬Da questo esempio tutto sommato semplice,‭ ‬possiamo partire per illustrare esempi via via più complessi,‭ ‬sino a giungere ad una spiegazione plausibile della nascita e della crescita delle istituzioni e delle forme di governo.‭ ‬Abbiamo,‭ ‬dunque,‭ ‬una sorta di doppia dipendenza.‭ ‬Da un lato le istituzioni politico-sociali dipendono dagli individui,‭ ‬in quanto non potrebbero neppure essere immaginate in loro assenza‭ (‬in altri termini,‭ ‬esse non si creano da sole:‭ ‬in un pianeta privo di esseri umani non ci sarebbero istituzioni sociali‭)‬.‭ ‬Dall’altro gli indivui dipendono,‭ ‬anche se non in modo totale,‭ ‬dal contesto sociale in cui sono inseriti‭ (‬la‭ “‬solidarietà‭” ‬altro non è che il riconoscimento di questo vincolo originario con gli altri membri della società‭)‬.
Ho detto che tale dipendenza non è totale per un motivo molto semplice:‭ ‬l’individuo non dipende soltanto dal contesto sociale in quanto,‭ ‬da un certo punto di vista,‭ ‬egli è pure parte del mondo naturale.‭ ‬Per quanto riguarda la sua configurazione fisica e materiale,‭ ‬egli è un oggetto tra gli oggetti e,‭ ‬in ultima analisi,‭ ‬le particelle subatomiche di cui noi siamo fatti sono le stesse che compongono qualsiasi oggetto che ci circonda,‭ ‬dal più piccolo al più grande.‭ ‬Tuttavia non può essere questo il nostro segno distintivo,‭ ‬altrimenti non vi sarebbe differenza alcuna tra me e,‭ ‬per esempio,‭ ‬il computer mediante il quale sto scrivendo.‭ ‬La differenza risiede,‭ ‬appunto,‭ ‬nell’essere noi inseriti in un mondo sociale che è in gran parte autonomo da quello naturale.‭ ‬Questo mondo sociale ci fornisce non solo le regole per l’azione o il linguaggio per comunicare in maniera intersoggettiva,‭ ‬ma anche gli strumenti per metterci in contatto con il mondo naturale di cui noi stessi facciamo parte dal punto di vista meramente fisico.‭ ‬Il nostro rapporto con il mondo naturale è sempre un rapporto mediato,‭ ‬giacché la scienza stessa è un prodotto sociale,‭ ‬e gli strumenti scientifici che usiamo per indagare la natura sono il prodotto di una ricerca storica che trova in ambito sociale la sua giustificazione ultima‭ (‬il desiderio di conoscere il mondo circostante‭)‬.‭ ‬Infine,‭ ‬la nostra stessa attività concettuale,‭ ‬mediante la quale categorizziamo il mondo,‭ ‬ha senso soltanto all’interno di un contesto sociale.‭ ‬L’uso dei concetti‭ ‬-‭ ‬come quello del linguaggio‭ ‬-‭ ‬sorge e si sviluppa solo in un ambiente comunicativo:‭ ‬l’individuo isolato,‭ ‬che comunica solo con se stesso e tiene conto unicamente dei propri scopi e dei propri desideri è mera finzione e indebita ipostatizzazione.
Tutto ciò ci conduce direttamente al concetto di‭ “‬solidarietà‭”‬.‭ ‬Si tratta,‭ ‬come tutti sappiamo,‭ ‬di un concetto oggi piuttosto impopolare a causa dell’uso distorto che di esso è stato fatto in un passato anche recente,‭ ‬per cui esiste il timore‭ ‬-‭ ‬peraltro fondato,‭ ‬se si guarda all’esperienza trascorsa‭ ‬-‭ ‬che la solidarietà si trasformi in assistenzialismo che costa senza dare nulla in cambio.‭ ‬Il concetto di solidarietà deve tornare al centro dell’attenzione se si vuole evitare l’acuirsi di una crisi sociale già molto profonda.‭ ‬Come già detto in precedenza,‭ ‬la‭ “‬solidarietà‭” ‬altro non è che il riconoscimento del vincolo originario e indistruttibile che ognuno di noi intrattiene con gli altri membri della società.‭ ‬In altre parole,‭ ‬se rammentiamo che il nostro essere individui è inevitabilmente segnato dal nostro stare in rapporto organico con gli altri,‭ ‬allora comprenderemo che uno spostamento ragionevole di risorse può servire ad alleviare le tensioni sociali dando vita a una migliore qualità complessiva della vita.‭ ‬Per incamminarsi su questa strada occorre rinunciare all’io atomizzato e solipsistico‭ (‬e sostanzialmente fittizio‭) ‬teorizzato da tanti pensatori liberali e liberisti dei nostri giorni.‭ ‬Occorre insomma rinunciare a questo‭ “‬io‭” ‬che si espande a dismisura,‭ ‬sino ad annullare tutto il resto.‭ ‬Bisogna negare l’equivalenza‭ “‬Io‭ = ‬mondo‭”‬,‭ ‬nel senso che l’io e il mondo sarebbero in pratica la stessa cosa‭ (‬proprio come,‭ ‬in tanta parte della filosofia contemporanea,‭ ‬linguaggio e mondo sono la stessa cosa‭)‬.‭ ‬Se il mondo è una semplice proiezione dell’io,‭ ‬diventa pressoché impossibile trovare ragioni per stare insieme.
Si noti,‭ ‬tuttavia,‭ ‬che la solidarietà non è un concetto attraente solo a livello teorico.‭ ‬Esso ha delle ricadute sul piano pratico,‭ ‬e può addirittura essere vista sotto un profilo utilitaristico.‭ ‬Se,‭ ‬in nome della solidarietà,‭ ‬si rinuncia a qualcosa per favorire gli altri,‭ ‬è probabile che le tensioni sociali possano essere mantenute entro livelli tollerabili,‭ ‬contribuendo così a migliorare la qualità della vita sia di chi dà sia di chi riceve.‭ ‬In caso contrario,‭ ‬esiste il rischio che i soggetti più deboli‭ (‬e tra questi vanno inclusi anche i giovani,‭ ‬che risentono meno della mediazione dell’esperienza‭) ‬scelgano la strada della violenza.‭ ‬In questo senso,‭ ‬occorre riconoscere che il mercato,‭ ‬per quanto indispensabile,‭ ‬non produce valori,‭ ‬ma efficienza.‭ ‬Qualcuno potrebbe obiettare che anche l’efficienza è,‭ ‬in fondo,‭ ‬un valore,‭ ‬ma a mio avviso essa non è sufficiente‭ ‬-‭ ‬da sola‭ ‬-‭ ‬a fondare la vita sociale.‭ ‬Credere dunque che la dimensione economica goda di un predominio assoluto su tutte le altre non porta affatto a un maggiore benessere diffuso,‭ ‬bensì alla crescita del disagio sociale.

Michele Marsonet: La democrazia è un bene assoluto ?


La democrazia non è un bene assoluto, né lo è quella sua particolare versione intrisa di liberalismo che oggi prevale in Occidente. La democrazia, anzi, è pericolosa, perché molto spesso – per non dire quasi sempre – porta al governo i peggiori mediante elezioni cosiddette “libere”. Bene fanno i dirigenti cinesi a dire che – loro - della democrazia non sanno che farsene: gli occidentali se la tengano e buon pro gli faccia. E, visto che ormai sono lanciato, metto nel calderone pure Putin. Bene fa il leader russo post-sovietico a fissare paletti che non si possono abbattere: democrazia sì, ma fino a un certo punto. Aggiungo infine, per fare buon peso, Bashar al-Assad. Bene fa il dittatore siriano a respingere gli appelli alla democratizzazione che gli giungono da ogni dove. Sicuramente lo abbatteranno tramite la solita “guerra giusta” combattuta per procura ma, dopo, seguirà il solito caos e i fondamentalisti islamici avranno via libera anche a Damasco.
Questi strani pensieri mi frullano in testa da un paio di giorni. Dapprima confusi, sono diventati via via più netti e precisi, anche se contraddicono le mie più intime convinzioni liberaldemocratiche. Quale l’origine? Potrei identificarla nell’indecente talk show di Santoro del quale Berlusconi è stato protagonista assoluto, ma non è vero. In realtà sono le reazioni seguite all’evento che mi hanno fatto sentire – all’improvviso – anti-democratico.
Già. I riflettori erano stati appena spenti ed è subito iniziato il coro dei peana. A destra un grosso respiro di sollievo. “Lui” c’è ancora. Non è cotto come i nemici pretendevano. Al contrario: quando tira fuori gli artigli nessuno è in grado di reggere il confronto. Non importa l’aspetto fisico sempre più posticcio, i capelli che paiono incollati con l’attak, gli occhi così stirati da farlo sembrare un giapponese, il ghigno perpetuo frutto di innumerevoli lifting. “Lui”, comunque, c’è, e le sue truppe cammellate possono rimettersi in marcia sotto la solita bandiera.
A sinistra e al centro, ammesso che quest’ultimo esista, respiro di affanno. Il cadavere, a dispetto di ogni previsione, è resuscitato, è uscito dalla tomba come Lazzaro sentendo la voce di Gesù-Santoro. E allora via con le gag, i gesti plateali, le battute da caserma, le solite eterne promesse cui tantissimi abboccano, dai ferrovieri agli avvocati, dai giornalai ai professori universitari. Toglierà l’IMU e penserà a come reperire i soldi mancanti. Bacchetterà Europa e Germania e ci ridarà la cara, vecchia lira, rendendoci felici. Di chi la colpa se il nostro Paese si è trovato sull’orlo di un default scongiurato all’ultimo istante? Di Monti e dei tecnici, ovviamente. Lui, anche se mummificato, ci aveva lasciato in condizioni splendide: ristoranti pieni, navi da crociera affollate, clima festaiolo permanente.
Che l’uomo di Arcore sia un grande comunicatore lo sapevamo tutti. In tema di retorica e di abilità discorsiva nessuno regge botta, e men che mai Monti, Bersani e gli altri leader e leaderini oggi presenti sulla scena. Eppure la realtà non si può modificare con l’abilità dialettica, sia pure di grande livello. Invece no. La realtà sparisce e viene sostituita da un’apparenza intessuta di sogni, illusioni e, soprattutto, bugie grandi come elefanti. Però sogni, illusioni e bugie pagano. Lo show, stando ai sondaggi, ha fruttato dal 10 al 15% di consensi in più all’eventuale partito del Cav., del quale ancora non si conosce il nome poiché la sigla Pdl non gli piace più.
Mi si può obiettare che questa è davvero democrazia allo stato puro. In fondo Berlusconi è andato nella tana del nemico, si è sottoposto al contraddittorio e… ha vinto (almeno sul piano delle parole). In democrazia prevale chi riceve più voti degli altri. Poco importa la bontà delle proposte, la credibilità (e fattibilità) dei programmi. E neppure conta il passato, se si è abbastanza abili da cancellarlo facendo intravedere una nuova verginità. Se la maggioranza degli elettori ci crede il gioco è fatto, e forse proprio questo accadrà.
Sulla stampa italiana ho letto commenti che stupiscono. Un giornalista ha persino tirato in ballo il concetto weberiano di “capo carismatico”, che il nostro incarnerebbe a pieno titolo. Davvero incredibile: chissà che ne direbbe Max Weber. Un altro ha tentato il paragone con De Gaulle, e in questo caso viene da ridere se appena si rammenta la biografia e la figura austera del generale e statista francese. Nessuno ha invece pensato a un parallelo con Juan Domingo Peron, assai più legittimo e plausibile.
Tornando agli strani pensieri anti-democratici che mi frullano in testa, noto che oggi molti parlano della necessità di “dimenticare Platone”, essendo il filosofo greco l’antesignano del pensiero totalitario. Stando almeno all’interpretazione che ha fornito Karl Popper il quale, ne La società aperta e i suoi nemici, equipara “totalitarismo” e “utopia”. E se così non fosse? Se ricordassimo Platone invece di dimenticarlo? E se, infine, tornassimo ad attribuire valenza positiva al concetto di “utopia”?
So bene che il tentativo platonico di tratteggiare la società ideale governata dai migliori e dai competenti pone problemi pressoché irrisolvibili. Chi è in grado di individuare con sicurezza i migliori e i competenti e, soprattutto, con quali strumenti si può controllare il loro operato? Tuttavia penso che gli intellettuali, invece di appiattirsi su un eterno presente, dovrebbero costantemente formulare proposte utopiche, pur consci che non sono realizzabili qui e ora.
E’ possibile che i miei pensieri anti-democratici svaniscano domani come neve al sole e che lo spirito pratico riprenda il sopravvento. Ed è pure possibile che solo una minoranza si faccia impressionare dallo show berlusconiano, comprendendo gli altri la distinzione tra apparenza e realtà. Resta però l’amarezza nel constatare come e quanto, in Italia, parole nobili come “democrazia” e “liberalismo” vengano usate a sproposito.

sabato, gennaio 05, 2013

Non è tutto mercato

Non tutto è mercato. 

Commettiamo spesso l'errore di confondere la libertà, concetto più ampio, con l'economicismo o il mercatismo, che spesso sono più alleati dello statalismo, come lo stesso esempio dell'Italia dimostra. 

Profitti privati e debiti pubblici sono frutto del capitalismo di stato come lo definisce Geminello Alvi, sul modello cinese.

 Molte, troppe cariatidi nella politica italiana. 

Inoltre, si  esagera nel descrivere il liberal - cattolicesimo di Monti.

Né in passato, né nella cosiddetta Agenda vi sono indicazioni chiare sul modello renano, che l'ex premier intenderebbe perseguire, pur nel marasma generale dei rapporti tra lavoro e capitale e nulla fa ritenere possibile un cambiamento di rotta in tal senso.

L'economia sociale di mercato vuol dire soprattutto destatalizzazione, ed è ben lungi dall'essere un obiettivo del Monti bis, specialmente nella profilata ipotesi di un compromesso con la sinistra, comprendente, per lo più, forze storicamente ed ideologicamente stataliste.

L'appoggio dato alla scelta civica da personaggi di spicco della partitocrazia, o movimenti che si richiamano alle consolidate prassi degli accordi sottobanco per il mantenimento dei privilegi di casta, con ricorso alla tassazione a sostegno di lobby e carrozzoni politici, la dice lunga sui veri conservatori dell'establishment, con il consenso del Vaticano e della finanza internazionale.

Il capitale dovrebbe essere mobilitazione di energie creative, nello spirito dell'autentica libertà d'iniziativa e d'intrapresa individuale e tendere allo scambio e al dono, più che alla mercificazione e all'abbrutimento dell'uomo, considerato non già persona, ma numero al servizio del potere di qualsiasi genere.

L'esatto contrario di quanto avviene da troppo tempo nel nostro paese e che si vorrebbe perpetuare.


venerdì, gennaio 04, 2013

Autoaffondamento

Monti autoaffonda sotto il peso dello snobismo e dell'autoreferenzalità. 

Essendo stato nominato premier per grazia divina, crede di poter dispensare rabbiosi consigli a destra e a manca, con una supponenza ed un'acredine degne dei peggiori partitanti.

L'ultima battuta su Brunetta lo qualifica come uno dei più brutali e rissosi uomini politici della prima repubblica, a nulla valendo gli atteggiamenti curialeschi e la gesticolazione semi-artcolata a conferirgli il carisma cui aspira e di cui è purtroppo sprovvisto.

Il gambero Monti

Verso la prima repubblica...

Luca Ricolfi, in un lucido articolo pubblicato sulla Stampa del 31.12.12, ha fatto le pulci all'Agenda Monti per ricavarne un'ineccepibile conclusione. L'ex premier ha in mente un allontanamento dalle posizioni squisitamente moderate e punta all'alleanza con la sinistra storica, preferendo impostazioni stataliste e fondate soprattutto sull'austerity piuttosto che sui tagli della spesa pubblica, tramite un aumento della tassazione.

Ricolfi ha analizzato molto bene la strategia messa in atto dai montiani: depredare i voti dei moderati per privilegiare quelli che un tempo il Cardinale Siri definiva' i comunistelli di sagrestia', fautori della collettivizzazione forzata a mezzo del fisco, da attuarsi con un'alleanza con il Pd ed evitando in tal modo moti di piazza, turbolenze sindacali e reazioni della sinistra radicale e alternativa. 

E' un po' il gioco della balena bianca che prendeva i voti a destra per inaugurare tristi connubi con l'estrema sinistra fino ad arrivare al compromesso (anti)storico.

Con questo sistema, a dispetto delle parole di Monti, si perpetua la conservazione della nomenklatura: non per nulla pronubi di queste malsane nozze appaiono i soliti Casini e l'apprendista stregone Montezemolo, al quale già molti moderati avevavo prestato il proprio consenso in buona fede, sperando in un serio rinnovamento del centro-destra, da realizzarsi sulle rovine del berlusconismo. 

Piaccia o no, a parte Grillo, Il giornalista Giannino è l'unico a dire cose giuste sui mali d'Italia e sui programmi da applicare per uscire dalla crisi e dallo statalismo più bieco in nome della libertà della persona contro il Leviatano e nell'interesse stesso della Chiesa, la quale sperando di salvare se stessa e i suoi beni, si affida al neo-sagrestano, fiduciario dell'alta finanza, per non soccombere politicamente ed economicamente. 

Più di quanto non sia già stata sconfitta da una società civile, che ha perso qualsiasi riferimento di tipo religioso, e considera il cattolicesimo alla stregua di  un' ideologia mondana, il Vaticano finge di credere che i catto- comunisti e i post- comunisti abbiano cambiato pelle e siano ora unti del Signore : non si avvede che questa strada è insidiata da trappole mortali, che accelerano la fine dell'Istituzione .