giovedì, luglio 11, 2013

''Siamo all'alba di una rivoluzione planetaria: potremo sopravvivere o essere condannati all'insussistenza''


di Franco Cardini



- Le rivoluzioni della modernità analizzate da un grande storico. Al giro di boa del III millennio le prospettive di un futuro che un sistema mediatico menzognero ci impedisce di comprendere -


l generale malessere del mondo, la crisi presente in molti paesi europei, la situazione di stallo segnata dai paesi arabi nei quali troppo presto e con scarsa cognizione di causa si era parlato di “primavera”, l’incerto e contraddittorio ritorno di alcune potenze occidentali (segnatamente la Francia) a strumentalizzare i movimenti islamisti, il disagio registrato da quelle che potrebbero venir presentate come “rivolte antifondamentaliste” in Egitto e in Turchia, hanno ricondotto d’attualità presso i media una domanda per molti versi drammatica: non c’è forse ormai bisogno di una rivoluzione per ridefinire gli immensi problemi che ormai si stanno intrecciando fra loro e magari azzerarli e ricominciare? Ma è possibile tale rivoluzione? Ed è possibile che essa si verifichi sul serio in qualche parte del mondo, oppure la realtà globalizzata è tale ch’essa stessa, per riuscire, dovrebbe essere globale? Proviamo, per avviare una risposta storica a tale qustione, a precisare alcuni punti.

Il concetto di “rivoluzione” è, in origine, astronomico: indica il giro completo che nel sistema solare i pianeti compiono attorno al sole per tornare al punto di partenza.

Ma la parola, che per noi è ormai sinonimo di totale e sconvolgente mutamento di assetto sociopolitico, per giunta di solito rapido e violento, fu impiegata nella sua accezione attuale per la prima volta nell’Inghilterra del Seicento, col significato di un movimento che, attraverso una pratica di cambiamento radicale della situazione politica, mirava a riacquistare e a imporre di nuovo sulla terra e nella storia l’originaria condizione umana di libertà e di uguaglianza, quindi a compiere l’opera divina di Redenzione. Tale la natura del concetto di “rivoluzione” in quel movimento che alla fine del Seicento condusse al trono Guglielmo di Orange e che fu la glorious revolution.

Un centinaio di anni dopo, nella Parigi dei philosophes e dei giacobini, tutto era cambiato. Era già stato il cristianesimo a sostituire l’idea del tempo lineare, con un principio e una fine, a quella ch’era stata la tenace idea tradizionale del tempo circolare e dell’Eterno Ritorno, i cristiani ne avevano sostituita un’altra che aveva come perno l’incarnazione e come estremi la Creazione e la Fine del Mondo: tuttavia l’anno liturgico e l’anno lavorativo agrario, entrambi radicati nel ritmo circolare delle stagioni, aveva a lungo mantenuta viva nei popoli l’idea del tempo ciclico, magari corrotta dal pessimismo esiodeo e lucreziano in un susseguirsi spiraliforme di ere l’una peggiore dell’altra (d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro), giù fino alla ferrea proles, il kali-yuga dei Veda.

Ma con la Rivoluzione si aprì un’età nuova: e, come il Carducci fa dire al Goethe all’indomani della battaglia di Valmy, una “novella istoria”. La rivoluzione inglese, per quanto giunta al termine di una lunga gestazione durante la quale si era addirittura potuto decapitare un re, nel ridefinire i patti tra il sovrano e il popolo con la nuova casa d’Orange rafforzò, rinnovandola, la monarchia. La rivoluzione, dopo i suoi primi incerti e contraddittorii inizi, al contrario non solo rovesciò il trono e l’altare e decapitò la coppia regale, ma sostituì al principio della fedeltà incrollabile alla corona e alla dinastia quello della fedeltà a qualcosa di vecchio quanto al nome, ma di nuovo quanto al concetto: la nazione.

Il Settecento è difatti non solo il secolo dell’invenzione della tradizione, come l’ha definita Eric Hobsbawm, bensì anche quello dell’invenzione della nazione come realtà etno-socio-linguistico-culturale non tanto nuova in sé – di nationes già si parlava nell’impero romano e come gentes o nationes si qualificavano nelle traduzioni latine della Bibbia i popoli non-ebrei – quanto nuova nella misura in cui, fra i suoi diritti primari, le si rivendicava quello di costruire uno stato di sua esclusiva eprtinenza, uno “stato nazionale”.

La Rivoluzione francese sta quindi all’inizio di un complesso e polimorfo movimento dinamico che anima e informa di sé i suoi secoli presenti: afferma solennemente i principii di libertà individuale ma al tempo stesso di eguaglianza tra individui e tra qualunque tipo di forma societaria, incurante delle divergenti dinamiche che i due princìpi in realtà avviavano e della paradossale loro reciproca incompatibilità se assunti in senso assoluto, dal momento che la libertà di ciascuno uccide fatalmente l’uguaglianza, e questa non può se non affermarsi distruggendo quella.

Non solo: distinguendo una liberta di (di parola, di pensiero, di espressione, di confessione religiosa, di proprietà) da una libertà da (dalla dogmatica, dall’autoritarismo, dalla tirannia, dalla fame, dalla malattia, dalla paura), si traccia privilegiando quest’ultima la strada verso l’uguaglianza non solo giuridica, bensì anche economica e sociale. In questo senso però la rivoluzione francese, sfociando nelle soluzioni “borghesi” e “liberali” di Termidoro e dell’autoritarismo militarista napoleonico, resta “incompiuta” e in parte nega se stessa – da qui le tesi di chi vorrebbe far cominciare la Restaurazione non già dalla caduta dell’imperatore dei francesi, bensì al contrario proprio dal consolato e poi dall’impero -: liberalismo e socialismo, in effetti, risultano strettamente collegati e in qualche modo complementari, o quanto meno questo il naturale esito sotto forma di reazione rispetto a quello.

Durante il XIX secolo e poi all’inizio del XX, abbiamo assistito alla corsa all’egemonia tra le potenze europee due delle quali (Francia e Inghilterra) avevano imboccato senza sostanziali esitazioni la strada capitalistica e il sistema democratico rappresentativo liberale, mentre altre due (Prussia-Germania e Austria-Ungheria) mostravano di voler accompagnare allo sviluppo capitalistico e liberistico un sistema politico fondato su forme di rappresentanza a carattere sostanzialmente consultivo e altre due ancora (impero czarista russo e impero sultaniale ottomano) apparivano intente ad affrontare i problemi della multinazionalità/pluriculturalità e della modernizzazione, per il secondo dei quali necessitavano in vari e differenti modi del sostegno finanziario, imprenditoriale e tecnologico delle potenze occidentali, in cambio accettando con certe limitazioni la loro alleanza (la Russia) o la loro penetrazione egemonica (l’impero ottomano).

Frattanto, in Asia, altre compagini imperiali si stavano ponendo il problema della modernizzazione-occidentalizzazione (il Giappone, la Cina, la Persia), mentre non insensibili al fascino dell’occidente e alle idee nazionali –per loro del tutto nuove – apparivano i paesi arabi. Queste differenti e contrastanti prospettive determinavano delle fatali rotte di scontro: tra la Russia e l’Inghilterra per l’egemonia sull’Asia centrale (il Great Game); tra la Russia e la Turchia ottomana per quella sul Mar Nero e sugli Stretti (Bosforo-Mar di Marmara) in quanto la Russia czarista intendeva affacciarsi sul Mediterraneo; ancora tra la Russia e l’Austro-Ungheria per la spartizione dell’area balcanica nella quale la potenza sultaniale stava sbriciolandosi (e in quell’area la Russia intendeva non solo raggiungere anche là il Mediterraneo, ma anche proporsi come stato-guida del mondo slavo e della compagine religiosa ortodossa); tra l’Inghilterra e la Turchia in quanto Sua maestà Britannica, una volta aggiunta alle sue corone quella imperiale d’India, aveva bisogno di egemonizzare il Vicino Oriente per mantenersi libero il passaggio del Canale di Suez e assicurarsi che mai sarebbero sorte potenze sue concorrenti sulle coste settentrionali e occidentali dell’Oceano Indiano.

La detenzione e il controllo sia di Gibilterra, sia di Suez, sia della fortezza di Malta, faceva intanto sì che l’Inghilterra potesse considerare il Mediterraneo un “lago britannico”: ma ciò sottintendeva la necessità di controllare in quel settore gli sviluppi navali sul piano tanto militare quanto civile e commerciale di Francia e di Spagna, e stabilire una sorta di “alleanza egemonica” con Portogallo e Italia.

Infine, quando con Guglielmo II anche il capitalismo e il militarismo tedesco ebbero scelto di giocare a loro volta a fondo le carte del colonialismo africano e della corsa allo sviluppo cantieristico e nautico, quindi dell’accesso della Germania a una politica egemonica oceanica in concorrenza con l’Inghilterra, tutto sarebbe stato pronto per lo scoppio della “guerra dei Trent’anni”, quella 1914-1945, che vanno considerate congiunte in quanto la seconda rappresenta un’inevitabile prosecuzione della prima a causa degli iniqui patti di pace di Versailles alla fine di essa e dell’insorgere dei totalitarismi, che è necessario interpretare come una risposta al fallimento della gestione liberal-liberistica della “questione sociale” nata nell’Ottocento e aggravatasi nel Novecento e dell’incapacità della classe dirigente capitalistica dell’Europa occidentale di risolvere i problemi delle società di massa.

A tutto ciò vanno uniti almeno tre ulteriori, decisivi fattori: primo, l’insorgere della questione petrolifera a causa degli sviluppi della tecnologia moderna e delle scoperte dei giacimenti soprattutto vicino-orientali: secondo, il progressivo affermarsi della nuova potenza statunitense con una progressiva azione egemonica sul mondo; terzo, lo sviluppo in funzione prima anticolonialistica, quindi – dopo il secondo conflitto mondiale – antineocolonialistica delle istanze di libertà e di affermazione nazionale dei nuovi paesi emersi dallo scomporsi del sistema coloniale.

Oggi, siamo pervenuti a una fase critica del cosiddetto processo di globalizzazione, avviatosi nei secoli XVI-XVIII con le grandi scoperte geografiche, le invenzioni, lo sviluppo scientifico e la prima “rivoluzione industriale” e giunto quindi alle ulteriori rivoluzioni – la petrolifera, la nucleare, la tecnologico-spaziale, la tecnologico-genetica, l’informatico-telematica – che hanno in pochi decenni sconvolto il panorama ecoantropologico e messo profondamente in discussione il rapporto, già del resto dinamico, tra uomo, cosmo e natura.

D’altronde, il netto predominio dell’Europa e di quello che dal Settecento in poi si è autodefinito l’Occidente nei confronti del resto del mondo è stato caratterizzato dalla violenza e dallo sfruttamento colonialistici e dal drenaggio continuo delle ricchezze dei continenti extraeuropei messo in atto attraverso l’economia-mondo e il cosiddetto “scambio asimmetrico”.

Nonostante segnali importanti come l’abolizione dello schiavismo (del resto coincidente con il crescente e sistematico sfruttamento dei ceti subalterni all’insegna di un’uguaglianza giuridico-formale che nascondeva profonde disuguaglianze), nessun occidentale pareva curarsi – al di là delle denunzie di alcuni spiriti eletti – che le premesse eticosociali delle grandi rivoluzioni settenovecentesche, con i loro valori “universali”, erano tutte disattese dalla pratica della dominazione coloniale.

Contraccolpi come il diffondersi del socialismo in Asia, Africa e America latina durante la seconda metà del Novecento e l’insorgere poi del fondamentalismo musulmano, radicato nella frustrazione e nella delusione del mondo islamico nei confronti delle mancate promesse e degli inganni, erano del tutto prevedibili e sono stati storicamente parlando ovvi e legittimi. Anche se e nella misura in cui non hanno conseguito sempre e del tutto gli scopi che si erano prefissi.

Al riguardo, si è obbligati a segnalare con energia un grossolano e gravissimo inganno che alcuni governi e alcuni media hanno cercato di perpetrare ai nostri danni a proposito dei movimenti musulmani cosiddetti “fondamentalisti”, ora elogiati come “combattenti della libertà” (dall’Afghanistan del tempo della guerra di liberazione antisovietica fino alle vicende del Kosovo e, più di recente, a proposito della Libia e della Siria), ora implacabilmente demonizzati com’è accaduto all’indomani dell’11 settembre 2001, una tragedia il carattere della quale resta ancora nell’ombra – nonostante la trionfalistica conclusione di troppe fasulle inchieste – e che è stata cinicamente strumentalizzata per aggredire l’Afghanistan nel 2001 e l’Iraq nel 2003, scatenando disordini, guerre civili e forme d’ingovernabilità ormai cronicizzatesi.

Quelle aggressioni hanno prodotto anche autentici mostri sotto il profilo del diritto internazionale, come il carcere di Abu Ghraib dove si torturavano orribilmente i detenuti e quello di Guantanamo che continua a sussistere nonostante la sua evidente illegalità della quale è responsabile il governo degli Stati Uniti d’America. E si è altresì costretti a denunziare l’illusione e la truffa delle cosiddette “primavere arabe”, un’invenzione mediatica escogitata per giustificare in qualche modo dinanzi all’opinione pubblica mondiale la cacciata dalla Tunisia e dall’Egitto di due dittatori feroci e corrotti, entrambi amicissimi dei governi occidentali, ed elaborata in modo da mascherare la feroce repressione che alcuni governi arabi sunniti tanto religiosamente esclusivisti quanto politicamente filoccidentali (l’Arabia Saudita e gli emirati del Qatar, del Bahrein, dell’Oman) mettevano in atto per scatenare una durissima persecuzione contro i loro stessi sudditi di confessione sciita, esportando poi la fitna (guerra civile nei paesi musulmani) in direzione della Libia prima, della Siria poi, e nelle intenzioni forse perfino verso l’Iran.

Ai giorni d’oggi, gli stessi governi islamistici sunniti moderati, come Turchia ed Egitto, stanno subendo nei loro paesi il contrattacco di forze che all’esterno i media presentano come “laiche”, mentre il fatto che lo stesso governo israeliano si sia dimostrato come tutt’altro che entusiasta dinanzi alla prospettiva di una vittoria delle forze ribelli in Siria (temendo non ingiustificatamente che esse una volta al potere riaprirebbero la questione del Golan, che il governo assadista di Damasco si è nella sostanza rassegnato a lasciare nelle mani d’Israele) ha preso di contropiede quegli occidentali che si erano dimostrati più nethanyahunisti di Nethanyahu, quali gli impagabili Bernard-Hénri Lévi e Magdi Allam.

Il quadro è quindi complesso, ma siamo quindi giunti forse adesso alla resa dei conti. Se per rivoluzione la Modernità ci ha abituati a intendere un radicale e profondo mutamento negli equilibri non solo giuridici, civili, economici e sociali, ma anche nelle prospettive etiche e addirittura esistenziali, possiamo dire che dopo il blocco rappresentato dalle quattro grandi rivoluzioni sociopolitiche dei secolo XVIII-XX (l’americana, la francese, la sovietica, la cinese) noi siamo oggi chiamati ad affrontare una nuova rivoluzione di portata epocale, i tratti fondamentali della quale sono due.

Primo: l’eclisse per ora irreversibile delle istituzioni pubbliche, anzitutto di quelle statali, accompagnata dalla crescente importanza di lobbies multinazionali private sottratte a qualunque controllo, con la conseguente riduzione dei governi statali e delle classi politiche a “comitati d’affari” e, parallelamente, l’avanzare di un “irresistibile” (che qualcuno vorrebbe presentare come “inarrestabile”, con non disinteresasto determinismo) processo di concentrazione della ricchezza, di proletarizzazione dei ceti medi e di generale impoverimento della società civile del mondo, già caratterizzata da abissali e intollerabili sperequazioni.

Secondo: il passaggio – mirabilmente interpretato da Zygmunt Bauman – dalla “Modernità solida”, caratterizzata da una tensione verso l’individualismo il più possibile assoluto e dalla volontà di potenza della società occidentale, con il correlativo processo di secolarizzazione, alla “Modernità liquida” (il “Postmoderno”) nella quale questi valori e atteggiamenti sono messi in crisi, si contesta l’individualismo, rinascono forme di solidarismo, si ricercano nuovi stili qualitativi di vita, riaffiorano le esigenze religiose.

Terzo: l’affacciarsi alla ribalta della storia di nuovi popoli e di nuovi stati, specie asiatici, africani e latino-americani, che contestano il carattere eurocentrico e occidentocentrico della storia così com’è stata interpretata fino ad oggi e rimettono all’Occidente il conto di un’egemonia durata mezzo millennio durante il quale i governi liberali occidentali hanno usato quegli stessi metodi che l’Occidente ha rimproverato ai totalitarismi quando essi li hanno usati all’interno della sua compagine.

La rivoluzione del futuro, quella che ci sta davanti mentre avanzano le nuove potenze del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina, cui si dovrà forse aggiungere tra non molto l’Iran), dovrà pertanto, se vorrà aver caratteristiche positive per l’intero genere umano, essere caratterizzata da due elementi: primo, una profonda ridistribuzione a livello mondiale della ricchezza, che riequilibri i rapporti internazionali e quelli interni a ciascuna compagine civile rappresentando così da sola un importante fattore di pace altrimenti inconseguibile in quanto senza giustizia sociale la pace è impensabile; secondo, una vera e propria rivoluzione sul piano dei consumi, del rapporto con l’ambiente, degli stili di vita.

Questa rivoluzione potrà anche non verificarsi, oppure fallire: ma allora saremo tutti condannati.
( Totalità, 11/07/2013)

sabato, giugno 15, 2013

Marcello Staglieno


Ho sentito l'ultima volta Marcello ai primi di gennaio di quest'anno ed era felice per averla scampata bella dal male tremendo. 



Mi illustrò le terapie seguite e i suoi prossimi appuntamenti importanti: il matrimonio del figlio (di cui era orgogliosissimo), al quale mi invitò per il prossimo luglio, orgoglioso del fatto che la futura nuora fosse una nobile e cattolicissima giovane di antico casato tedesco, la stesura di un libro sull'amatissimo Ernst Junger, gli ultimi ritocchi all'arredamento del nuovo centralissimo appartamento di Milano da parte dell'attenta e perfettissima moglie Monica per aprirla alla frequentazione degli amici in un clima di rinnovata serenità e fiducia nella vita.



Per un invito a cena riservata a due ospiti molto cari, mi ringraziò poi per il Cannonau che gli avevo inviato, annunciandomi che avrebbe festeggiato l'evento, tirando il collo ad alcune delle bottiglie appena arrivate.



Inutile dire che fu, more solito, premuroso e gentile, profondamente vicino, sollecito e pronto ad ascoltarmi come solo un vero amico è in grado di fare. 



La notizia della sua scomparsa mi attanaglia l'animo e mi rende orfano: Marcello era un personaggio antico e moderno al tempo stesso, generoso, esuberante, coltissimo, ricco di esperienze intellettuali e di vita pratica, anche avventurosa, assai preziose; fu spesso, per scelta di Indro, un alter ego di Montanelli, il prediletto fra i suo illustri collaboratori, un principe del giornalismo culturale, un anarco-conservatore dalle sensibilità finissime, un galantuomo ed un vero signore come ormai si è persa la traccia.



Una volta mi disse, nel suo buen retiro di Carro, che avrebbe voluto morire in battaglia... 
E così è stato, al di là delle apparenze. Una fine esemplare da uomo virile, dalle qualità aristocratiche e dalle rare virtù civili. Indimenticabile e insostituibile.

mercoledì, gennaio 16, 2013

Michele Marsonet: Solidarietà e mercato

Si legge spesso sui giornali che,‭ ‬in una democrazia liberale,‭ ‬legalità e etica sono cose diverse,‭ ‬ragion per cui la dimensione etica dev’essere nettamente distinta da quella politica ed economica.‭ ‬I liberisti odierni hanno ragioni da vendere quando mettono in guardia contro i pericoli di‭ “‬politicizzazione‭” ‬dell’economia,‭ ‬e ciò è ancor più giustificabile nel caso italiano,‭ ‬soprattutto rammentando quanto è avvenuto nel nostro Paese durante gli ultimi decenni.‭ ‬Tuttavia occorre chiedersi se,‭ ‬tra l’infeudamento dell’economia alla politica da un lato,‭ ‬e l’individualismo quale unico metro di giudizio dall’altro,‭ ‬non esistano davvero altre strade praticabili.‭ ‬Il liberismo,‭ ‬in altre parole,‭ ‬non può essere un dogma da difendere a ogni costo,‭ ‬e la fine ingloriosa di coloro che sui dogmi costruirono le loro fortune passate dovrebbe indurre tutti ad adottare un sano realismo quando si discute di questi temi.
Ipotizzare un individuo isolato dalle cui scelte,‭ ‬in meccanica congiunzione con le scelte degli altri individui,‭ ‬si possa dedurre l’intera struttura della vita sociale,‭ ‬è mera utopia.‭ ‬Ed è un’utopia che è la speculare controparte dell’idea secondo cui l’intera struttura della vita sociale può essere dedotta dalla‭ “‬classe‭” ‬intesa come entità a se stante.‭ ‬Si tratta,‭ ‬in ogni caso,‭ ‬di ipostatizzazioni che nulla hanno a che fare con la vita concreta‭; ‬nel primo caso si presuppone la presenza di un mitico individuo isolato,‭ ‬nel secondo l’altrettanto mitica presenza di una classe che prescinde dagli individui che la compongono.
In realtà,‭ ‬sin dalla nascita noi non siamo mai individui isolati,‭ ‬bensì individui che agiscono in un contesto sociale.‭ ‬Facciamo insomma parte di un gruppo che si è dato delle regole,‭ ‬e queste regole determinano il senso stesso delle nostre azioni.‭ ‬Non solo.‭ ‬Il nostro gruppo è parte di un gruppo più vasto,‭ ‬e quest’ultimo è parte di un gruppo più vasto ancora,‭ ‬e così via,‭ ‬sino a giungere al gruppo più vasto in assoluto,‭ ‬includente tutti coloro che vengono definiti esseri umani.‭ ‬Si noti,‭ ‬ad ogni buon conto,‭ ‬che risulterebbe assai difficile determinare che cosa sia un individuo prescindendo dall’intera rete di relazioni sociali che fissano i criteri in base ai quali si svolge la sua vita.
Tuttavia occorre aggiungere ancora qualcosa per completare il quadro.‭ ‬L’insieme delle relazioni sociali di cui abbiamo appena parlato dà vita al mondo sociale,‭ ‬e tale mondo ha via via conquistato una sua dimensione autonoma che è difficile contestare.‭ ‬Istituzioni,‭ ‬forme di governo,‭ ‬regole,‭ ‬etc.‭ ‬sono certamente prodotti del genere umano,‭ ‬ma la loro forza è tale da produrre ciò che oggi si chiama‭ “‬reazione di feed-back‭” (‬retroazione‭)‬,‭ ‬grazie a cui essi sono influenzati dalle azioni degli individui ma,‭ ‬a loro volta,‭ ‬le influenzano.‭ ‬Se non teniamo conto di questo fatto,‭ ‬diventa arduo dare un senso alle nostre stesse azioni.
Se io e alcuni di voi decidessimo oggi di dar vita a un circolo culturale,‭ ‬è evidente che l’esistenza di tale circolo dipenderebbe da quella degli individui che lo hanno creato.‭ ‬Tuttavia,‭ ‬non è affatto meno evidente che l’esistenza del circolo influenzerebbe la nostra,‭ ‬in quanto la sua creazione ci differenzia da tutti gli altri individui che non ne sono membri.‭ ‬Ma si può pure notare che,‭ ‬dando vita al circolo,‭ ‬noi in un certo senso trascendiamo il presente per proiettarci nel futuro,‭ ‬in quanto il nostro circolo presumibilmente si propone di organizzare delle attività destinate a migliorare il livello culturale nostro e di altre persone.‭ ‬Da questo esempio tutto sommato semplice,‭ ‬possiamo partire per illustrare esempi via via più complessi,‭ ‬sino a giungere ad una spiegazione plausibile della nascita e della crescita delle istituzioni e delle forme di governo.‭ ‬Abbiamo,‭ ‬dunque,‭ ‬una sorta di doppia dipendenza.‭ ‬Da un lato le istituzioni politico-sociali dipendono dagli individui,‭ ‬in quanto non potrebbero neppure essere immaginate in loro assenza‭ (‬in altri termini,‭ ‬esse non si creano da sole:‭ ‬in un pianeta privo di esseri umani non ci sarebbero istituzioni sociali‭)‬.‭ ‬Dall’altro gli indivui dipendono,‭ ‬anche se non in modo totale,‭ ‬dal contesto sociale in cui sono inseriti‭ (‬la‭ “‬solidarietà‭” ‬altro non è che il riconoscimento di questo vincolo originario con gli altri membri della società‭)‬.
Ho detto che tale dipendenza non è totale per un motivo molto semplice:‭ ‬l’individuo non dipende soltanto dal contesto sociale in quanto,‭ ‬da un certo punto di vista,‭ ‬egli è pure parte del mondo naturale.‭ ‬Per quanto riguarda la sua configurazione fisica e materiale,‭ ‬egli è un oggetto tra gli oggetti e,‭ ‬in ultima analisi,‭ ‬le particelle subatomiche di cui noi siamo fatti sono le stesse che compongono qualsiasi oggetto che ci circonda,‭ ‬dal più piccolo al più grande.‭ ‬Tuttavia non può essere questo il nostro segno distintivo,‭ ‬altrimenti non vi sarebbe differenza alcuna tra me e,‭ ‬per esempio,‭ ‬il computer mediante il quale sto scrivendo.‭ ‬La differenza risiede,‭ ‬appunto,‭ ‬nell’essere noi inseriti in un mondo sociale che è in gran parte autonomo da quello naturale.‭ ‬Questo mondo sociale ci fornisce non solo le regole per l’azione o il linguaggio per comunicare in maniera intersoggettiva,‭ ‬ma anche gli strumenti per metterci in contatto con il mondo naturale di cui noi stessi facciamo parte dal punto di vista meramente fisico.‭ ‬Il nostro rapporto con il mondo naturale è sempre un rapporto mediato,‭ ‬giacché la scienza stessa è un prodotto sociale,‭ ‬e gli strumenti scientifici che usiamo per indagare la natura sono il prodotto di una ricerca storica che trova in ambito sociale la sua giustificazione ultima‭ (‬il desiderio di conoscere il mondo circostante‭)‬.‭ ‬Infine,‭ ‬la nostra stessa attività concettuale,‭ ‬mediante la quale categorizziamo il mondo,‭ ‬ha senso soltanto all’interno di un contesto sociale.‭ ‬L’uso dei concetti‭ ‬-‭ ‬come quello del linguaggio‭ ‬-‭ ‬sorge e si sviluppa solo in un ambiente comunicativo:‭ ‬l’individuo isolato,‭ ‬che comunica solo con se stesso e tiene conto unicamente dei propri scopi e dei propri desideri è mera finzione e indebita ipostatizzazione.
Tutto ciò ci conduce direttamente al concetto di‭ “‬solidarietà‭”‬.‭ ‬Si tratta,‭ ‬come tutti sappiamo,‭ ‬di un concetto oggi piuttosto impopolare a causa dell’uso distorto che di esso è stato fatto in un passato anche recente,‭ ‬per cui esiste il timore‭ ‬-‭ ‬peraltro fondato,‭ ‬se si guarda all’esperienza trascorsa‭ ‬-‭ ‬che la solidarietà si trasformi in assistenzialismo che costa senza dare nulla in cambio.‭ ‬Il concetto di solidarietà deve tornare al centro dell’attenzione se si vuole evitare l’acuirsi di una crisi sociale già molto profonda.‭ ‬Come già detto in precedenza,‭ ‬la‭ “‬solidarietà‭” ‬altro non è che il riconoscimento del vincolo originario e indistruttibile che ognuno di noi intrattiene con gli altri membri della società.‭ ‬In altre parole,‭ ‬se rammentiamo che il nostro essere individui è inevitabilmente segnato dal nostro stare in rapporto organico con gli altri,‭ ‬allora comprenderemo che uno spostamento ragionevole di risorse può servire ad alleviare le tensioni sociali dando vita a una migliore qualità complessiva della vita.‭ ‬Per incamminarsi su questa strada occorre rinunciare all’io atomizzato e solipsistico‭ (‬e sostanzialmente fittizio‭) ‬teorizzato da tanti pensatori liberali e liberisti dei nostri giorni.‭ ‬Occorre insomma rinunciare a questo‭ “‬io‭” ‬che si espande a dismisura,‭ ‬sino ad annullare tutto il resto.‭ ‬Bisogna negare l’equivalenza‭ “‬Io‭ = ‬mondo‭”‬,‭ ‬nel senso che l’io e il mondo sarebbero in pratica la stessa cosa‭ (‬proprio come,‭ ‬in tanta parte della filosofia contemporanea,‭ ‬linguaggio e mondo sono la stessa cosa‭)‬.‭ ‬Se il mondo è una semplice proiezione dell’io,‭ ‬diventa pressoché impossibile trovare ragioni per stare insieme.
Si noti,‭ ‬tuttavia,‭ ‬che la solidarietà non è un concetto attraente solo a livello teorico.‭ ‬Esso ha delle ricadute sul piano pratico,‭ ‬e può addirittura essere vista sotto un profilo utilitaristico.‭ ‬Se,‭ ‬in nome della solidarietà,‭ ‬si rinuncia a qualcosa per favorire gli altri,‭ ‬è probabile che le tensioni sociali possano essere mantenute entro livelli tollerabili,‭ ‬contribuendo così a migliorare la qualità della vita sia di chi dà sia di chi riceve.‭ ‬In caso contrario,‭ ‬esiste il rischio che i soggetti più deboli‭ (‬e tra questi vanno inclusi anche i giovani,‭ ‬che risentono meno della mediazione dell’esperienza‭) ‬scelgano la strada della violenza.‭ ‬In questo senso,‭ ‬occorre riconoscere che il mercato,‭ ‬per quanto indispensabile,‭ ‬non produce valori,‭ ‬ma efficienza.‭ ‬Qualcuno potrebbe obiettare che anche l’efficienza è,‭ ‬in fondo,‭ ‬un valore,‭ ‬ma a mio avviso essa non è sufficiente‭ ‬-‭ ‬da sola‭ ‬-‭ ‬a fondare la vita sociale.‭ ‬Credere dunque che la dimensione economica goda di un predominio assoluto su tutte le altre non porta affatto a un maggiore benessere diffuso,‭ ‬bensì alla crescita del disagio sociale.

Michele Marsonet: La democrazia è un bene assoluto ?


La democrazia non è un bene assoluto, né lo è quella sua particolare versione intrisa di liberalismo che oggi prevale in Occidente. La democrazia, anzi, è pericolosa, perché molto spesso – per non dire quasi sempre – porta al governo i peggiori mediante elezioni cosiddette “libere”. Bene fanno i dirigenti cinesi a dire che – loro - della democrazia non sanno che farsene: gli occidentali se la tengano e buon pro gli faccia. E, visto che ormai sono lanciato, metto nel calderone pure Putin. Bene fa il leader russo post-sovietico a fissare paletti che non si possono abbattere: democrazia sì, ma fino a un certo punto. Aggiungo infine, per fare buon peso, Bashar al-Assad. Bene fa il dittatore siriano a respingere gli appelli alla democratizzazione che gli giungono da ogni dove. Sicuramente lo abbatteranno tramite la solita “guerra giusta” combattuta per procura ma, dopo, seguirà il solito caos e i fondamentalisti islamici avranno via libera anche a Damasco.
Questi strani pensieri mi frullano in testa da un paio di giorni. Dapprima confusi, sono diventati via via più netti e precisi, anche se contraddicono le mie più intime convinzioni liberaldemocratiche. Quale l’origine? Potrei identificarla nell’indecente talk show di Santoro del quale Berlusconi è stato protagonista assoluto, ma non è vero. In realtà sono le reazioni seguite all’evento che mi hanno fatto sentire – all’improvviso – anti-democratico.
Già. I riflettori erano stati appena spenti ed è subito iniziato il coro dei peana. A destra un grosso respiro di sollievo. “Lui” c’è ancora. Non è cotto come i nemici pretendevano. Al contrario: quando tira fuori gli artigli nessuno è in grado di reggere il confronto. Non importa l’aspetto fisico sempre più posticcio, i capelli che paiono incollati con l’attak, gli occhi così stirati da farlo sembrare un giapponese, il ghigno perpetuo frutto di innumerevoli lifting. “Lui”, comunque, c’è, e le sue truppe cammellate possono rimettersi in marcia sotto la solita bandiera.
A sinistra e al centro, ammesso che quest’ultimo esista, respiro di affanno. Il cadavere, a dispetto di ogni previsione, è resuscitato, è uscito dalla tomba come Lazzaro sentendo la voce di Gesù-Santoro. E allora via con le gag, i gesti plateali, le battute da caserma, le solite eterne promesse cui tantissimi abboccano, dai ferrovieri agli avvocati, dai giornalai ai professori universitari. Toglierà l’IMU e penserà a come reperire i soldi mancanti. Bacchetterà Europa e Germania e ci ridarà la cara, vecchia lira, rendendoci felici. Di chi la colpa se il nostro Paese si è trovato sull’orlo di un default scongiurato all’ultimo istante? Di Monti e dei tecnici, ovviamente. Lui, anche se mummificato, ci aveva lasciato in condizioni splendide: ristoranti pieni, navi da crociera affollate, clima festaiolo permanente.
Che l’uomo di Arcore sia un grande comunicatore lo sapevamo tutti. In tema di retorica e di abilità discorsiva nessuno regge botta, e men che mai Monti, Bersani e gli altri leader e leaderini oggi presenti sulla scena. Eppure la realtà non si può modificare con l’abilità dialettica, sia pure di grande livello. Invece no. La realtà sparisce e viene sostituita da un’apparenza intessuta di sogni, illusioni e, soprattutto, bugie grandi come elefanti. Però sogni, illusioni e bugie pagano. Lo show, stando ai sondaggi, ha fruttato dal 10 al 15% di consensi in più all’eventuale partito del Cav., del quale ancora non si conosce il nome poiché la sigla Pdl non gli piace più.
Mi si può obiettare che questa è davvero democrazia allo stato puro. In fondo Berlusconi è andato nella tana del nemico, si è sottoposto al contraddittorio e… ha vinto (almeno sul piano delle parole). In democrazia prevale chi riceve più voti degli altri. Poco importa la bontà delle proposte, la credibilità (e fattibilità) dei programmi. E neppure conta il passato, se si è abbastanza abili da cancellarlo facendo intravedere una nuova verginità. Se la maggioranza degli elettori ci crede il gioco è fatto, e forse proprio questo accadrà.
Sulla stampa italiana ho letto commenti che stupiscono. Un giornalista ha persino tirato in ballo il concetto weberiano di “capo carismatico”, che il nostro incarnerebbe a pieno titolo. Davvero incredibile: chissà che ne direbbe Max Weber. Un altro ha tentato il paragone con De Gaulle, e in questo caso viene da ridere se appena si rammenta la biografia e la figura austera del generale e statista francese. Nessuno ha invece pensato a un parallelo con Juan Domingo Peron, assai più legittimo e plausibile.
Tornando agli strani pensieri anti-democratici che mi frullano in testa, noto che oggi molti parlano della necessità di “dimenticare Platone”, essendo il filosofo greco l’antesignano del pensiero totalitario. Stando almeno all’interpretazione che ha fornito Karl Popper il quale, ne La società aperta e i suoi nemici, equipara “totalitarismo” e “utopia”. E se così non fosse? Se ricordassimo Platone invece di dimenticarlo? E se, infine, tornassimo ad attribuire valenza positiva al concetto di “utopia”?
So bene che il tentativo platonico di tratteggiare la società ideale governata dai migliori e dai competenti pone problemi pressoché irrisolvibili. Chi è in grado di individuare con sicurezza i migliori e i competenti e, soprattutto, con quali strumenti si può controllare il loro operato? Tuttavia penso che gli intellettuali, invece di appiattirsi su un eterno presente, dovrebbero costantemente formulare proposte utopiche, pur consci che non sono realizzabili qui e ora.
E’ possibile che i miei pensieri anti-democratici svaniscano domani come neve al sole e che lo spirito pratico riprenda il sopravvento. Ed è pure possibile che solo una minoranza si faccia impressionare dallo show berlusconiano, comprendendo gli altri la distinzione tra apparenza e realtà. Resta però l’amarezza nel constatare come e quanto, in Italia, parole nobili come “democrazia” e “liberalismo” vengano usate a sproposito.

sabato, gennaio 05, 2013

Non è tutto mercato

Non tutto è mercato. 

Commettiamo spesso l'errore di confondere la libertà, concetto più ampio, con l'economicismo o il mercatismo, che spesso sono più alleati dello statalismo, come lo stesso esempio dell'Italia dimostra. 

Profitti privati e debiti pubblici sono frutto del capitalismo di stato come lo definisce Geminello Alvi, sul modello cinese.

 Molte, troppe cariatidi nella politica italiana. 

Inoltre, si  esagera nel descrivere il liberal - cattolicesimo di Monti.

Né in passato, né nella cosiddetta Agenda vi sono indicazioni chiare sul modello renano, che l'ex premier intenderebbe perseguire, pur nel marasma generale dei rapporti tra lavoro e capitale e nulla fa ritenere possibile un cambiamento di rotta in tal senso.

L'economia sociale di mercato vuol dire soprattutto destatalizzazione, ed è ben lungi dall'essere un obiettivo del Monti bis, specialmente nella profilata ipotesi di un compromesso con la sinistra, comprendente, per lo più, forze storicamente ed ideologicamente stataliste.

L'appoggio dato alla scelta civica da personaggi di spicco della partitocrazia, o movimenti che si richiamano alle consolidate prassi degli accordi sottobanco per il mantenimento dei privilegi di casta, con ricorso alla tassazione a sostegno di lobby e carrozzoni politici, la dice lunga sui veri conservatori dell'establishment, con il consenso del Vaticano e della finanza internazionale.

Il capitale dovrebbe essere mobilitazione di energie creative, nello spirito dell'autentica libertà d'iniziativa e d'intrapresa individuale e tendere allo scambio e al dono, più che alla mercificazione e all'abbrutimento dell'uomo, considerato non già persona, ma numero al servizio del potere di qualsiasi genere.

L'esatto contrario di quanto avviene da troppo tempo nel nostro paese e che si vorrebbe perpetuare.


venerdì, gennaio 04, 2013

Autoaffondamento

Monti autoaffonda sotto il peso dello snobismo e dell'autoreferenzalità. 

Essendo stato nominato premier per grazia divina, crede di poter dispensare rabbiosi consigli a destra e a manca, con una supponenza ed un'acredine degne dei peggiori partitanti.

L'ultima battuta su Brunetta lo qualifica come uno dei più brutali e rissosi uomini politici della prima repubblica, a nulla valendo gli atteggiamenti curialeschi e la gesticolazione semi-artcolata a conferirgli il carisma cui aspira e di cui è purtroppo sprovvisto.

Il gambero Monti

Verso la prima repubblica...

Luca Ricolfi, in un lucido articolo pubblicato sulla Stampa del 31.12.12, ha fatto le pulci all'Agenda Monti per ricavarne un'ineccepibile conclusione. L'ex premier ha in mente un allontanamento dalle posizioni squisitamente moderate e punta all'alleanza con la sinistra storica, preferendo impostazioni stataliste e fondate soprattutto sull'austerity piuttosto che sui tagli della spesa pubblica, tramite un aumento della tassazione.

Ricolfi ha analizzato molto bene la strategia messa in atto dai montiani: depredare i voti dei moderati per privilegiare quelli che un tempo il Cardinale Siri definiva' i comunistelli di sagrestia', fautori della collettivizzazione forzata a mezzo del fisco, da attuarsi con un'alleanza con il Pd ed evitando in tal modo moti di piazza, turbolenze sindacali e reazioni della sinistra radicale e alternativa. 

E' un po' il gioco della balena bianca che prendeva i voti a destra per inaugurare tristi connubi con l'estrema sinistra fino ad arrivare al compromesso (anti)storico.

Con questo sistema, a dispetto delle parole di Monti, si perpetua la conservazione della nomenklatura: non per nulla pronubi di queste malsane nozze appaiono i soliti Casini e l'apprendista stregone Montezemolo, al quale già molti moderati avevavo prestato il proprio consenso in buona fede, sperando in un serio rinnovamento del centro-destra, da realizzarsi sulle rovine del berlusconismo. 

Piaccia o no, a parte Grillo, Il giornalista Giannino è l'unico a dire cose giuste sui mali d'Italia e sui programmi da applicare per uscire dalla crisi e dallo statalismo più bieco in nome della libertà della persona contro il Leviatano e nell'interesse stesso della Chiesa, la quale sperando di salvare se stessa e i suoi beni, si affida al neo-sagrestano, fiduciario dell'alta finanza, per non soccombere politicamente ed economicamente. 

Più di quanto non sia già stata sconfitta da una società civile, che ha perso qualsiasi riferimento di tipo religioso, e considera il cattolicesimo alla stregua di  un' ideologia mondana, il Vaticano finge di credere che i catto- comunisti e i post- comunisti abbiano cambiato pelle e siano ora unti del Signore : non si avvede che questa strada è insidiata da trappole mortali, che accelerano la fine dell'Istituzione .