martedì, aprile 03, 2007

Bocca il provinciale



Su "L'Espresso" , leggo un articolo di Giorgio Bocca, dedicato ai nuovi ricchi e alla decadenza del nostro paese, nonché l' intervista in cui rievoca le speranze e le istanze dell'Italia degli anni ottanta, descritte ne "Il provinciale", libro ristampato di recente, del quale sottolinea le illusioni sulla rigenerazione dell'Italia e della classe dirigente, con affermazioni totalmente pessimistiche se non catastrofiche sulla realtà di oggi.

Difficile dare torto al giornalista piemontese, protagonista acuto e fortemente impegnato nella vita politica e culturale dell'ultimo cinquantennio, quando - a bilancio della propria attività di militante - finisce con l'osservare come siano stati dei fallimenti la resistenza, le esperienze istituzionali del dopoguerra, durante gli anni della democrazia cosiddetta "parlamentare," fino ai giorni nostri.

Ma la distruzione dei miti, coltivati nell'animo suo e in quello della generazione allevata nella lotta partigiana, da che cosa deriva in particolare?

Saremmo tentati di dire esclusivamente dal carattere degli italiani: non a caso la rubrica di Bocca s'intitola l'Antitaliano.

E' senz'altro vero che - dopo il tanto celebrato miracolo economico degli anni sessanta - il nostro popolo ha mostrato sempre più vistosi segni di cedimento ad una logica scarsamente comunitaria, disperdendo nel nulla quel che rimaneva del senso dello Stato ereditato dall'età post-risorgimentale, umbertina e fascista, per acquietarsi nel proprio "particulare"e trovare uno scopo esistenziale unicamente nella possibilità di fare denaro, magari con l'aiuto del welfare, dell'insano connubio tra capitalismo e sindacalismo, attraverso il compromesso storico di berlingueriana memoria, a tutto danno del ceto medio- piccolo, della libertà d'impresa e dell'evoluzione in senso autenticamente democratico del nostro ordinamento.

Va aggiunto che Bocca rimane attestato sull'idea di un Piemonte curiosamente sabaudo (modello di virtu' ed efficienza sia in campo privato che pubblico), che avrebbe dovuto informare di sé tutta la nazione italiana, a dispetto di quanto avvenne dopo il risorgimento, in un'azione di governo visione prettamente annesionista delle altre regioni italiane, per le quali egli non nasconde un senso di fastidio, di ripulsa e, addirittura, un vero e proprio razzismo come quando parla di Napoli.

Al Nostro non viene in mente che una parte rilevante di responsabilità viene proprio dalla classe politica, la quale è stata pure formata da piemontesi i quali, con l'eccezione di Einaudi, stimato Presidente della Repubblica ed inutile predicatore di una politica economica non inquinata da sovrabbondanti interventi statali, non hanno saputo impedire lo strapotere dei partitanti, concausa della burocratizzazione imperante e della proliferazione del nepotismo.

Semmai doveva essere evitato, in uno sforzo unitario, che la partitocrazia mettesse radici ovunque, soffocando energie ed entusiasmi individuali e collettivi, espropriando lentamente, ma inesorabilmente, le strutture di uno Stato imparziale e al servizio di tutti i cittadini, per consegnare, pezzo dopo pezzo, la società ai nuovi famelici clientes, a soggetti pubblici, parastali o nazionalizzati, tuttora padroni dell'economia e supremi regolatori della vita dei sudditi, con vessazioni fiscali e burocratiche, come al tempo degli antichi feudatari.

Già l'insigne sociologo Vilfredo Pareto aveva individuato nell'alleanza innaturale tra capitale e ceti operai uno dei vizi della società italiana, alla fine della prima guerra mondiale.

Ma negli anni a cavallo tra il 70 e l'80, l'illustre giurista Giuseppe Maranini aveva denunziato la mostruosità di un sistema politico, che favoriva la nascita ed il rafforzamento di enti di fatto, come i partiti, quali nuovi centri di potere del tutto lontani dalla Costituzione e sicuramente responsabili del radicamento di un nuovo Leviatano.

Senza tacere della diagnosi perspicace ed attenta di uno degli intellettuali più lucidi disincantati, come Panfilo Gentile, che aveva individuato la tabe del nostro Stato in quella che veniva definita una democrazia mafiosa.

Come ha fatto Bocca a non accorgersene?

C'è da chiedersi se non sia proprio il suo carattere provinciale, tutto arroccato nella celebrazione della piemontesità e dello spirito resistenziale faziosamente legato al fratricidio della guerra civile, ad impedirgli di vedere tutte le cause del nostro decadimento come popolo libero e civile.


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