giovedì, novembre 22, 2007

Una primula all'Università


Fu al tempo dell’università.

Correva l’anno 1968.

Mitico, meno mitico.Rivoluzionario o no.

Chi può dirlo oggi con vera conoscenza del clima e dell’ambiente studentesco?

Credo pochi.

Per molti fu un anno di letizia e di allegre scorribande fra le aule occupate, più per imitazione che per scelta meditata.

Mi trovai un giorno davanti al cancello d’ingresso della facoltà di legge, chiuso con un lucchetto dall’interno.
Non si poteva entrare.

Dovevo rispondere all’appello di non so quale esame, e mi trovai di fronte a una diecina circa di studentelli ben vestiti e ben pasciuti, iscritti, per tradizione familiare, alla mia stessa sede, provinciale, tranquilla, ben organizzata con pochi frequentatori, posti in grado di seguire da vicino, in piccole aule da non più trenta- cinquanta persone, docenti e lezioni.

I figli di papà facevano la rivoluzione snob e noi che dovevamo studiare e superare i colloqui per arrivare alla laurea, eravamo tenuti fuori.

Ci era impedito l’accesso perché, lorsignori, dovevano fare baruffa, e passare giocosamente il tempo, sentendosi un po’ giacobini.

Noi eravamo quattro o cinque in quel momento, provenienti dalla casa dello studente, o arrivati con la macchina o col treno dalle cittadine più o meno lontane per fare il nostro dovere.

I padroni della situazione potevano permettersi altri lussi: studiare quando volevano, presentarsi nella sessione che più gradivano. Intanto erano lì ad innalzare cartelli incomprensibili, inneggianti all’occupazione contro i baroni e per il diritto allo studio (sic!).

Che fare?


Mi diressi verso le sbarre d’ingresso e vidi una faccia rossastra di un collega più anziano, figlio di un avvocato conosciuto in città ed esponente dell’intesa universitaria , un partito che aderiva all’opera di boicottaggio, sbarrando il passo a professori, rettore ed altri ignari studenti.

Mi avvicinai ancora e lo apostrofai, dicendogli, tra un’asta metallica e l’altra, che io dovevo entrare per sostenere l’esame.

Mi disse, tracotante, che non si passava e che l’avrebbero deciso loro quando si poteva avere libero il passaggio.

Aveva graziosamente in mano i quattro codici della Hoepli, dotazione necessaria per ogni aspirante alla laurea in diritto.
Dalla giacca blu di buon taglio fuoriusciva un’elegante cravatta regimental. Un ciuffo di capelli rossi lunghi pendeva sul lato sinistro della fronte, punteggiata di efelidi e piccole escrescenze.

Ripetei che io e i miei amici avevamo deciso di dare l’esame e che dietro di noi, in atto di scendere dall’auto blu, c’era il rettore , impegnato nella discussione delle tesi.

Cominciò a sbraitare, squittendo di non rompergli i cosiddetti, perchè quella decisione era ormai inoppugnabile, aggiungendo col pugno chiuso che, ad insistere, rischiavamo le botte.

Allungai una mano sul bavero della giacca, traendo verso di me la sua testa, che s’incastrò, quasi perfettamente, tra le sbarre, mentre, con l’altra, mi appropriai del ciuffo pendente, destinato ad essere il mio scalpo.

Gli urlaii, sillabando con forza dentro l’orecchio sinistro, che avrebbe dovuto aprirci l’ingresso, se voleva liberare la sua testa dal cancello, a cui nel frattempo avevo annodato la splendida cravatta.

Gemette per il dolore al collo e al cuoio capelluto, facendo scivolare i codici, divenuti inutili, sul gradino della scala d’accesso, e immediatamente dopo si convinse di spalancare i cancelli, che rimasero finalmente aperti per tutti.

Ero reduce da una lezione di filosofia del diritto, tenutasi il giorno prima, a cura di un professore emerito , tutta dedicata al concetto della libertà e della fede nella persona umana, come soggetto autonomo della comunità civile.

Mi aveva colpito la profondità dei concetti espressi con fermezza dal vecchio docente, il quale invitava i giovani ad avere fede nelle proprie convinzioni e a difenderle con senso di responsabilità.

Mi sentii come la primula dei romanzi di cappa e spada nel momento in cui, in coerenza con l’insegnamento ricevuto, ero riuscito con le" buone maniere" a rintuzzare la violenza di chi" lottava" per impedirci di proseguire nel piano di studi e ad aprire il varco ai colleghi, ben intenzionati a laurearsi senza perdite di tempo prezioso, che non potevamo permetterci.














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