mercoledì, gennaio 11, 2006

Scalfari impari da Bertinotti


Chi abbia suggerito a Barbapapà di presentarsi in Tv, nell'emerita trasmissione del paggetto Floris, artisticamente denominata Ballarò, non lo sappiamo, ma certamente non è stato un amichevole consiglio.

Lasciare il trono pontificale di Repubblica, da cui impartire le soporose prediche domenicali, per assidersi sugli scomodi sgabelli degli agit-prop dell'Unione non ha giovato affatto all'immagine di Eugenio Scalfari.

Il mammasantissima del giornalismo italiano, progressista per definizione, ammantato di finta cultura e di stereotipiti positivisti mal digeriti, animato da spirito di vendetta nei confronti dell'umanità, solo per il fatto di non pensarla al suo stesso modo, assertore della verità, della giustizia, della moralità pubblica e privata, nella tradizione del più greve e volgare giacobinismo, avrebbe dovuto capire che tale armamentario può essere tollerato solo a distanza e dietro il paravento di una testata conosciuta, sebbene poco accreditata, ma che non può essere esibito in televisione in una penosa trasmissione propagandistica, tenuta in piedi per volontà dei postcomunisti, per riecheggiare, in ogni suo passaggio, le patetiche riunioni delle cellule staliniste ai tempi della guerra fredda .

Ne va della dignità della persona e difatti Scalfari ha fatto un flop clamoroso con la sua violenza verbale, i pettegolezzi da cortile, i luoghi comuni, le accuse isteriche agli avversari, le gesticolazioni da bassa lega, tese a sottolinerare l'odio viscerale per chi - come gli antichi cafoni calabresi - non serve a dovere il capo gabelliere di turno.

Nell'ultima tormentata ed incredibile trasmissione, svoltasi con i soliti salti da giullari e dominata dall'idea di smentire la realtà, che sta affiorando nelle mani dei magistrati inquirenti, dalla quale emergono tristi figuri e poveri comprimari, non più circondati dall'aureola santificante della lega delle cooperative, ma ridotti a tenutari del sacco nelle imprese della nuova banda Bassotti, l'ex senatore socialista, intimissimo di miliardari rossi (più per la vergogna dei propri loschi affari con il KGB, che non per autentica fede proletaria), ha disintegrato il proprio patrimonio di maitre à penser per allievi di scuola serale, faticosamente costruitogli attorno dal mondo della comunicazione, grazie soprattutto alle rarefatte apparizioni in pubblico.

Con gli occhi incrociati dietro le lenti e la barba imperlata di goccioline di saliva, ballonzolanti sulle impietose telecamere, a maggiore sconcerto dei telespettatori, non si è accorto della propria mutazione in una sorta di claonesco mangiatore di fuoco, intento ad incenerire con le fauci dilatate il pur attrezzato ministro Castelli (basito dalle sue occhiate trasversali, cariche di pandemia) e a rievocare gutturalmente la storia politica italiana, ferocemente incolpando l'esterefatto Cicchitto di aver militato nella gloriosa sinistra lombardiana, prima di divenire un esponente forzista di punta.
l duri e puri non cambiano mai idea, sono tetragoni nella loro idiota coerenza, pareva dire l'Eugenio nazionale, dimenticando di aggiungere di quanto fosse invece brillante la sua figura di professionista e d' intellettuale organico, fin dai tempi del Guf,ed ancor più, quando si guadagnava la pagnotta nella redazione di Roma fascista.

Ma perché nessuno trova il coraggio di dire a questo santone dell'antifascimo e dell'anticapitalismo, della giustizia sociale, dell'etica laica, del vangelo anticlericale, che farebbe bene a prendere esempio dall' onorevole Bertinotti, molto più pacato e sobrio nell'eloquio e nelle argomentazioni esposte in televisione, capace di un garbo e di una misura degne del miglior Togliatti e dei raffinati salotti della borghesia illuminata.

Perché non ricordargli le lezioni ciceroniane del De senectute, dei modi più adatti per incedere nell'età gravescente?

Altro che inabissare la propria candida barba tra le mossettine vezzose ed i civettuoli gridolini di Alè del ballerino di Ballarò.

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